Hustle - La Recensione

Hustle Poster Sandler

Mentre guardavo “Hustle”, non riuscivo a fare a meno di pensare al calcio.
Di riversare ogni parentesi, ogni ruolo, ogni consiglio e situazione nell’unico sport che, effettivamente, seguo e conosco. Lo so, è un mio difetto, una mia mancanza, ma la cosa più interessante è che ci riuscivo perfettamente.
E questo perché lo sport-drama diretto da Jeremiah Zagar – e scritto da Taylor Materne and Will Fetters – non c’entra niente col basket, o perlomeno non c’entra col basket in senso stretto; è ambientato al suo interno, è vero, eppure ciò che inseguono il talent-scout Stanley Sugerman – impersonato da uno strepitoso Adam Sandler – e il suo giovane diamante grezzo – tiè – Bo Cruz – che è interpretato dal giocatore professionista Juancho Hernangómez – sono obiettivi che hanno a che fare con la vita, con l’essere umani, universali quindi.

Principalmente si tratta di riscatto.
A entrambi serve riscattarsi, prendersi una rivincita (su sé stessi). Per motivi diversi, ovviamente, ma non importa. E riscattarsi – nel basket, ma in qualunque disciplina e in generale – significa dover lottare, mettercela tutta, sapere cosa bisogna fare non dopo una vittoria o un canestro, ma dopo una sconfitta o un passaggio sbagliato: come suggerisce giustamente Sandler bisogna mettere l’ossessione davanti alla passione e, cosa retorica ma fondamentale, non mollare mai. E, allora, non mollano Stanley e Bo, non mollano mai. Nemmeno quando il (lavoro del) primo viene messo in discussione e finisce col perdere il suo posto, o quando il secondo deve scontare le conseguenze di un temperamento altalenante, responsabile di spiacevoli precedenti: che rischiano di bruciarlo senza nemmeno far parlare (di nuovo) il campo. Vanno avanti per la loro strada, i due, sottotraccia e col peso delle ferite e delle cicatrici (e dei tatuaggi) che si portano dietro: quelle in cui è scritta la storia che li riguarda e messe in risalto le radici di riferimento. Perché “Hustle”, per quanto possa apparire scontato, nella sua struttura che non lascia spazio a sorprese vere e proprie, e che segue, quasi rigorosamente, i dettami del suo genere, è un film che ama attaccare la profondità, curare i dettagli, e forse è (anche) per questo che, alla fine, riesce a racimolare assai più di quanto ci si potesse aspettare da lui.

Hustle Sandler Film

L’intensità di Sandler – che è un piacere, ormai, vedere in questi ruoli – fa chiaramente la differenza: perché in pochi, in pochissimi, riescono a sdrammatizzare o a rovesciare i toni di una scena con una facilità così spontanea e disarmante. Nella passione rabbiosa dei suoi discorsi, in quello stringere i pugni che rimarca il mordersi la lingua e nelle espressioni in cui cerca di dissimulare le emozioni negative che lo attraversano, c’è un intero lavoro in sottrazione che va ad aumentare, considerevolmente, il valore della posta in gioco. Un fuoco che arde, che divampa e che intuisce di poter esplodere – ed esplode, quindi – in maniera costruttiva solamente quando di fronte a lui incontra un suo simile: quando si rispecchia negli atteggiamenti e nella personalità del giovane Cruz.
E quel fuoco arriva subito a scaldare il cuore noi spettatori: che a prescindere dai colori, dalla rete e dalla grandezza del pallone, non possiamo far altro che tifare ed entusiasmarci per questa storia dalle caratteristiche tanto classiche quanto immortali; che cita Rocky (esplicitamente) e i suoi surrogati, senza comunque correre il rischio di remarsi contro, o di perdere centimetri di terreno.

Si vive, infatti, “Hustle”. Dal primo all’ultimo minuto.
Come una partita avvincente, come la finale di un torneo importantissimo, come se a scommettere la reputazione su quel parquet e su quegli spalti ci fossimo noi in prima persona, il nostro futuro, la nostra rivincita.
E quando il fischio dell’arbitro giunge a decretare i titoli di coda, sinceramente, l'idea di tornare a casa e dire addio a Stanley e Bo, un po’ ci addolora.
Segno di un'amicizia, sbocciata a prescindere.

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