Don't Worry Darling - La Recensione

Don't Worry Darling - Poster

Non lo so il motivo – o forse sì – però io mentre guardavo “Don’t Worry Darling” non riuscivo a smettere di pensare che fosse un film di Jordan Peele.
O meglio, un film pensato da Jordan Peele e diretto da qualcun altro.
Da Olivia Wilde, magari. 

Strutturalmente – per atmosfera, tematiche e costruzione narrativa – sembra, infatti, che la sceneggiatura scritta da Katie Silberman abbia voluto ispirarsi un po’ a “Get Out: Scappa” e un po’ a “Noi”, tenendo ovviamente presente ogni genere di riferimento-obbligato che certe storie vanno automaticamente a incrociare nell’immaginario di chi le elabora e in quello di chi ne usufruisce: e quindi giù coi vari “The Truman Show”, “La Fabbrica Delle Mogli” e altri titoli (sci-fi) che non cito, semplicemente per non rovinare l’effetto “sorpresa” e “diversificazione”. Siamo all’interno di un mondo ideale, favolistico, nel quale mariti e mogli – tutti, anzi quasi tutti – vivono in armonia e col sorriso stampato fisso sulle labbra. La pubblicità del Mulino Bianco lasciata in play e che dalla colazione procede fino all’ora di cena, in loop, consolidata da parentesi di sesso sfrenato che servono a testimoniare quanto il Progetto Victory – nome dell’azienda responsabile della creazione di tale benessere – sia manna dal cielo da difendere, ringraziare e sposare. Uno stile di vita che somiglia praticamente a una coreografia, a un balletto – simbolismo che la Wilde ci tiene a rimarcare – da eseguire e ripassare quotidianamente con severità e con rigore, pena il declassamento lavorativo (del marito) o addirittura l’espulsione dal circolo degli eletti (di entrambi).

Don't Worry Darling - Olivia Wilde

Ma come diceva qualcuno, c’è del marcio in Danimarca.
E per l’accoppiata femminile Wilde-Silberman quel marcio sta in una società patriarcale e maschilista che trascende dalla finzione del Progetto Victory per andare a toccare un presente reale, ancora ostinatamente aggrappato ai dettami degli anni ‘50. Un presente (governato prevalentemente da uomini) che lotta per limitare il progresso e la libertà (femminile sì, ma delle minoranze-tutte), chiamando in causa il volere della natura e della coscienza (mascolina) per fare opposizione ed evitare il raggiungimento di una parità e di un’uguaglianza tra i ruoli. Tutto bello. Tutto giusto. La sensazione però è che dentro un contesto come quello di “Don’t Worry Darling” l’importanza di tale voce, di tale messaggio, vada a schiacciare sia il racconto, sia la coerenza (e la spiegazione) delle sue scelte. La componente sinistra che avrebbe dovuto istituire carattere e atmosfera si fa presto ridondante e satura e certe domande – dalla risposa rilevante – restano insolute o chiarite a metà da dei flashback che fanno luce su alcune zone d'ombra, ma pare evitino appositamente di illuminarne altre: consentendo alla pellicola di farsi capire benissimo negli intenti, ma lasciando oltre un dubbio in merito all’esecuzione.

Somiglia a una vittoria di Pirro, perciò, quella di Wilde, che aveva tra le sue mani la possibilità di realizzare un’opera seconda (da regista) assai più incisiva ed interessante. Forse bastava solo non calcare troppo la mano sull'invettiva – che sarebbe passata a prescindere – e concentrarsi maggiormente sulla messa in scena: sul thriller e su quelle ripetute strizzatine d'occhio all'horror.
Come fa Jordan Peele, insomma.
Più o meno.

Trailer:

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