Jason Bourne è ormai un fuggiasco di cui si sono perse le tracce mentre la sua esistenza è stata resa un fatto di dominio pubblico. La CIA non potendo permettersi di entrare al centro di un enorme scandalo che la vedrebbe negativa protagonista cerca di nascondere le prove eliminando diversi dei suoi esperimenti, nello specifico i soggetti esposti al programma Outcome, uno dei successivi nati dopo Treadstone. Tutti gli agenti impiegati perciò vengono fatti fuori ad eccezione dell’unico sopravvissuto, Aaron Cross, che lesto riesce a scampare alla sua esecuzione e a fuggire alla ricerca di risposte.
La continuazione della saga di Jason Bourne passa per il volto di Jeremy Renner e per le mani di Tony Gilroy, la stessa persona che aveva sceneggiato la trilogia con Matt Damon e che stavolta oltre a riprendersi i panni di sceneggiatore (assistito dal fratello Dan) decide di assumersi anche quelli di regista.
“The Bourne Legacy” finisce dunque con il fruire di una fisionomia assai differente in confronto a quella a cui eravamo abituati: primo perché lo sguardo di Gilroy di certo non è lo stesso di Paul Greengrass e secondo perché il non prediligere un uso della camera a mano e né tantomeno un occhio fisso puntato sul protagonista principale cambia indubbiamente i connotati del prodotto. Ciò che privilegia Gilroy infatti è l’attenzione di uno sguardo esteso, convogliato ad abbracciare la narrazione nel pieno dei suoi dettagli e dei suoi intrighi, quindi più distaccato e, di conseguenza meno interessato, all’esplorazione degli interrogativi e dei turbamenti di un personaggio in particolare. Così Aaron Cross, il personaggio di Jeremy Renner, viene di fatto convertito in parte integrante del contesto e mai utilizzato come monopolio dello stesso, salvo quando obbligatorio durante la fase energica e maggiormente adrenalinica della pellicola.
Va da sé allora che “The Bourne Legacy” ricava proprio dal suo controllo e dalle sue riflessioni gli elementi essenziali che lo aiutano a classificarsi principalmente come thriller-politico anziché come action-movie. L’azione parte integrante dei precedenti episodi qui viene lesinata per oltre un ora e poi scaricata in dose massiccia solamente durante l’ottimo climax finale. Prima di questo c’è il grande spazio riservato alla delicata fase di raccordo impegnata a legare gli accadimenti conclusivi di “The Bourne Ultimatum” con quelli introduttivi sciorinati in questo e, in successione, il modesto approfondimento sui mezzi e gli esperimenti eseguiti dalla CIA, la quale consciamente non si risparmia a considerarsi –tramite le parole di Byer, interpretato da Edward Norton - umanamente condannabile ma pur sempre necessaria.
Tony Gilroy realizza pertanto un prolungamento di Bourne fatto a sua immagine e somiglianza che nella prima parte ricorda molto il suo “Micheal Clayton” mentre nella seconda si sveglia bruscamente e aderisce meglio al nome che porta addosso. Nulla da dire sulla scelta del cast, Jeremy Renner al posto di Matt Damon è una scelta azzeccata -ma aveva ampiamente dimostrato quanto ruoli del genere sembrino costruiti appositamente per lui- e Edward Norton, neanche a dirlo, è la stabile certezza.
E’ vero, siamo decisamente un paio di gradini sotto la trilogia originale, con uno spettacolo più ragionato e meno sporco, ma abbiamo dalla nostra la serena convinzione che, raddrizzando un pochino il tiro, questa saga potrà continuare a soddisfare pienamente il (suo) pubblico per molto e molto altro tempo ancora.
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