Anemone - La Recensione

Quando il Jem di Sean Bean va via di casa - lasciando quelli che apparentemente sembrano sua moglie e suo figlio - per dirigersi in mezzo ai boschi dell'Irlanda del Nord, alla ricerca della baita in cui vive il fratello Ray, con l'intento di convincerlo a tornare a casa e a rinunciare all'isolamento punitivo, il pensiero va immediatamente al giovane Ronan Day-Lewis che - magari con un pizzico di facilità in più - avrà dovuto compiere più o meno lo stesso percorso per convincere il padre Daniel a mettere in pausa la sua meritata pensione e riprendere in mano la recitazione (un'ultima volta?).

Perché il Ray che Jem deve incontrare e con il quale deve avere un confronto che negli anni non è mai riuscito (non ha voluto?) a intavolare è interpretato proprio da Daniel Day-Lewis, che di Anemone è sicuramente delizia, ma che rischiava pure di essere croce. Se non altro per via di un clamore che avrebbe potuto coprire, superare e sbilanciare il valore di un film che, invece, si rivela più o meno all'altezza del - notevole - chiacchiericcio che l'ha preceduto. Un film che parla di colpe, di violenze, di abusi, di incomunicabilità e di pesi portati sulle spalle che, forse, non riescono a scendere e ad alleggerirci, più per responsabilità nostra che degli altri (e questo fa un po' scricchiolare l'impalcatura, a dire il vero). Ambizioni enormi, dunque, specialmente se consideriamo che Ronan - regista e co-sceneggiatore insieme al padre - è al suo esordio cinematografico e che prima di mettere mani nell'ambiente che per anni era stata casa del padre, si era dedicato principalmente alla pittura. Un bagaglio che in "Anemone" finisce inevitabilmente per portarsi appresso, per inglobare nel processo in maniera quasi organica, con inquadrature che sembrano uscite a piè pari da una cornice e composizioni suggestive che sanno incantare, come far accapponare la pelle (il sogno di Ray nel cuore della note è visivamente spaventoso). Un manierismo al quale spesso la pellicola si aggrappa e che non per forza lo fa incontrando un'accezione negativa, ma un manierismo, anche, che tende a sottovalutare alcuni principi fondamentali del cinema e, nel suo abuso, finisce con l'appesantire e col perdere di vista l'equilibrio di una narrazione che deve ringraziare il cielo i suoi magnifici interpreti se comunque tiene botta e rimane nei ranghi del sostenibile.

Avere di fronte alla macchina da presa un gigante come Daniel Day-Lewis è un lusso che possono permettersi in pochi, d'altronde, e che, sul grande schermo, fa tutta la differenza del mondo. Così come la fa pure una spalla del calibro di Bean che, probabilmente, sa di essere l'ospite d'onore a una riunione di famiglia e in quanto tale, con educazione, resta al suo posto - ovvero a far da spalla - e porta a casa applausi, limitandosi a giocare di (ottima) sponda. Sono loro la sostanza del film, la fiamma, il mistero, la portata emotiva simboleggiata dal non-detto - che attenzione non per forza significa sconosciuto all'altro - che, a un certo punto, tutti e due hanno bisogno di tirar fuori, urlare e gettarsi contro, per spezzare la maledizione familiare dei padri sui figli. E, attenzione, perché quando si dice padri, in "Anemone", bisogna intendere tutte le digressioni possibili: quelli che mettono al mondo, quelli che tramandano la parola di Dio e la patria in generale. In fondo, l'abbiamo accennato, Ronan Day-Lewis è ambizioso e dentro una storia già pregnissima di contenuti (delicato da gestire) non intende lasciare fuori nemmeno quello dei troubles, della guerra nord-irlandese e dei suoi crimini che, a quanto pare, per chi comanda, esulano dall'orrore del conflitto in sé. E, allora, c'è tanto da dirsi, da rinfacciarsi, da espiare, forse addirittura troppo e forse addirittura ingiustificatamente, tant'è che a risentirne poi è il ritmo, la fluidità del racconto, che da l'impressione di ristagnare leggermente e di drammatizzare all'eccesso, scadendo nel biblico, nell'evocativo, in un surreale non sempre calzante per un conflitto, a conti fatti, assai meno tragico e tormentato del previsto.

C'è tanto di buono, di bello e di affascinate in "Anemone", quanto, però, anche di strabordante, superfluo e megalomane. Scelte che, nel bene e nel male, potremmo dire contribuiscano a dare carattere, vita e personalità al film, così come al lavoro di Ronan che conferma senza dubbio di non aver alcun timore a mettersi in mostra, a osare, esternando un suo stile. Che poi questo stile sia leggermente da rivedere e da calibrare, per far sì che risulti maggiormente efficace e cinematograficamente digeribile è un altro paio di maniche. Oppure no.

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