Alì ha Gli Occhi Azzurri - La Recensione

Lo spirito del documentarista Claudio Giovannesi sembra non averlo perso minimamente e nonostante l'aver cambiato forma dei suoi racconti le storie trattate continuano a lavorare temi con lo stesso stile rasente al documentario. “Alì ha Gli Occhi Azzurri” perciò si presenta meno cinematografico del previsto, sebbene riesca a irrompere ugualmente come pellicola in grado di dire la sua inviando più di un messaggio su cui andare a riflettere.

Giovannesi racconta con brutalità la generazione adolescente di oggi, cattiva, sporca e stupida e ci aggrega vicino anche il discorso relativo all'Italia multirazziale, con relativi scenari che sfociano in una sorta di crisi religiosa per chi si trova a contatto con l'analizzare diverse fedi. Il sedicenne Nader, arabo di nascita trapiantato a Ostia, tradisce infatti la sua religione per non rinunciare all'amore che prova per la ragazza e offeso dalla mentalità ristretta dei suoi furiosi genitori fugge di casa arrangiandosi come può per mangiare e per dormire.

Giovannesi ci mostra con occhio nascosto gli adolescenti sfrontati del mondo moderno, convinti di potersi considerare adulti a sedici anni e di sfidare genitori e mondo nella fase più confusa e acerba della loro vita. Nader vive l’incoscienza e l’immaturità allo stesso modo dei suoi coetanei, la sua però è prima di tutto una crisi identitaria, dovuta alla difficoltà di non poter amare liberamente e al miscuglio culturale a cui è stato sottoposto sin da bambino. Durante il suo periodo di allontanamento scandito dal passare di una settimana, complice la frequentazione di cattive compagnie, Nader fara allora i conti con un percorso tanto pericoloso quanto importante, perché fondamentale a rivalutare i propri legami, per scoprire sé stesso e per riabbracciare le sue antiche radici. Una scoperta dell'io che si scaglierà contro di lui violentemente e senza pietà mostrandogli con spudoratezza ed enorme sofferenza chi è veramente.

Il Giovannesi regista riporta tutto questo con grandissima discrezione senza risultare mai invadente né forzato con la camera ma solamente ottimo osservatore, curioso e intento a spiare quel che succede con interesse e vigore. Solo nell'ultima scena il suo tocco sveste i panni del documentarista e si fa invadente ma è il momento migliore per chiudere in modo cinematografico una storia che prima d'ora non lo era forse mai sembrata.

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