Accompagnata da continui accostamenti a “La Dolce Vita” di Federico Fellini - da cui avrebbe dovuto ereditare struttura narrativa, sguardo ostile nei confronti di una (alta) società profondamente malata e lo sfondo di una città imponente come Roma - “La Grande Bellezza” non disonora le aspettative e va ad incarnare, nel migliore dei modi, un po’ tutte le voci che l’hanno preceduta.
La creatura di Paolo Sorrentino potrebbe essere letta infatti come un trattato aggiornato sulla mondanità, sulla nostra gente e su una città bella quanto letale e affascinante quanto violentata. Roma è scenario incantevole della movida in cui affoga il giornalista-scrittore Jep Gambardella, lei città immobile, statuaria, perfetta e impassibile di fronte ai mostri senza cuore che la usano e ne approfittano, deflorandola ma al tempo stesso risaltandone maggiormente, appunto, la grande, inamovibile bellezza. Con sguardo indiscreto (più indiscreto del solito) il regista de “Il Divo” tenta di infilarsi allora nei sessantacinque anni appena compiuti di un uomo colto, famoso e stanco, che ha deciso di vivere la sua vita senza più perdere tempo a fare ciò che non vuole fare ma sapendo anche benissimo che quel che ha coltivato, difficilmente gli farà raccogliere frutti migliori.
Torna prepotente, di nuovo, il cruccio della vecchiaia quindi, il dubbio di non aver vissuto al meglio i propri giorni e i rimpianti legati ai ricordi di una gioventù spensierata, ora fuggita e perciò invidiata. “La Grande Bellezza” si sfoga di malinconia, fatica a guardare al futuro e tira le somme rimpiangendo un esito che non è affatto quello a cui si guardava quando ancora all'inizio della scalata. Gli attacchi feroci al nostro esser diventati, alle istituzioni, alla borghesia, praticamente a qualsiasi cosa, diventano perciò i veri, effettivi, protagonisti della pellicola, onnipresenti in scena accompagnati da brutture che aiutano a risaltarne contorni e fondali. Ma è nei festini a cui partecipa, o che organizza, il personaggio di Jep (un Toni Servillo straordinariamente irresistibile) che emerge la linfa migliore del lavoro, dove dialoghi ipocriti e smascheramenti, considerazioni poetiche e ciniche, paragoni assurdi e atteggiamenti sgraziati portano in superficie la vera, densa sostanza contenuta all'interno.
Questo accade perché Sorrentino sfoga la sua vena grottesca migliore (specie nei co-protagonisti), crea momenti e dialoghi divertentissimi (e ce ne sono) e insieme non perde mai di vista quello spirito filosofico che sta alla base della sua analisi, visto che definire “La Grande Bellezza” un racconto sarebbe altamente impreciso e vago. Assoldare un atteggiamento quasi schizofrenico e uno stile privo di filo lineare lo aiuta perciò a staccarsi dai suoi precedenti lavori e insieme ad alleggerire la mano invadente che pian piano sembra scomparire diventando invisibile, limitando persino la presenza di quei smodati movimenti di macchina che a lui tanto piacciono.
Imperfetto e incostante così come magnetico e stimolante, indubbiamente lungo oltre il dovuto ma sincero, schietto e crudele nel suo compimento. C’è molto, moltissimo da assorbire nei centoquaranta minuti della pellicola: parole, sentimenti, sensazioni, rimandi. Decisamente un opera complicata e stratificata, dove un unica visione, probabilmente, non è sufficiente a rendere giustizia alla profondità (offuscata) del contenuto. Sorrentino ha classificato ciò sotto il modesto termine di film, voltando le spalle alla definizione di capolavoro, ma secondo chi scrive, in ogni caso, la soluzione corretta, che dia giustizia al suo risultato, si trova nettamente a metà strada tra le due voci.
Trailer:
La creatura di Paolo Sorrentino potrebbe essere letta infatti come un trattato aggiornato sulla mondanità, sulla nostra gente e su una città bella quanto letale e affascinante quanto violentata. Roma è scenario incantevole della movida in cui affoga il giornalista-scrittore Jep Gambardella, lei città immobile, statuaria, perfetta e impassibile di fronte ai mostri senza cuore che la usano e ne approfittano, deflorandola ma al tempo stesso risaltandone maggiormente, appunto, la grande, inamovibile bellezza. Con sguardo indiscreto (più indiscreto del solito) il regista de “Il Divo” tenta di infilarsi allora nei sessantacinque anni appena compiuti di un uomo colto, famoso e stanco, che ha deciso di vivere la sua vita senza più perdere tempo a fare ciò che non vuole fare ma sapendo anche benissimo che quel che ha coltivato, difficilmente gli farà raccogliere frutti migliori.
Torna prepotente, di nuovo, il cruccio della vecchiaia quindi, il dubbio di non aver vissuto al meglio i propri giorni e i rimpianti legati ai ricordi di una gioventù spensierata, ora fuggita e perciò invidiata. “La Grande Bellezza” si sfoga di malinconia, fatica a guardare al futuro e tira le somme rimpiangendo un esito che non è affatto quello a cui si guardava quando ancora all'inizio della scalata. Gli attacchi feroci al nostro esser diventati, alle istituzioni, alla borghesia, praticamente a qualsiasi cosa, diventano perciò i veri, effettivi, protagonisti della pellicola, onnipresenti in scena accompagnati da brutture che aiutano a risaltarne contorni e fondali. Ma è nei festini a cui partecipa, o che organizza, il personaggio di Jep (un Toni Servillo straordinariamente irresistibile) che emerge la linfa migliore del lavoro, dove dialoghi ipocriti e smascheramenti, considerazioni poetiche e ciniche, paragoni assurdi e atteggiamenti sgraziati portano in superficie la vera, densa sostanza contenuta all'interno.
Questo accade perché Sorrentino sfoga la sua vena grottesca migliore (specie nei co-protagonisti), crea momenti e dialoghi divertentissimi (e ce ne sono) e insieme non perde mai di vista quello spirito filosofico che sta alla base della sua analisi, visto che definire “La Grande Bellezza” un racconto sarebbe altamente impreciso e vago. Assoldare un atteggiamento quasi schizofrenico e uno stile privo di filo lineare lo aiuta perciò a staccarsi dai suoi precedenti lavori e insieme ad alleggerire la mano invadente che pian piano sembra scomparire diventando invisibile, limitando persino la presenza di quei smodati movimenti di macchina che a lui tanto piacciono.
Imperfetto e incostante così come magnetico e stimolante, indubbiamente lungo oltre il dovuto ma sincero, schietto e crudele nel suo compimento. C’è molto, moltissimo da assorbire nei centoquaranta minuti della pellicola: parole, sentimenti, sensazioni, rimandi. Decisamente un opera complicata e stratificata, dove un unica visione, probabilmente, non è sufficiente a rendere giustizia alla profondità (offuscata) del contenuto. Sorrentino ha classificato ciò sotto il modesto termine di film, voltando le spalle alla definizione di capolavoro, ma secondo chi scrive, in ogni caso, la soluzione corretta, che dia giustizia al suo risultato, si trova nettamente a metà strada tra le due voci.
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