La separazione-scissione di un nucleo familiare visto con gli occhi di una piccola bambina.
In sintesi parla di questo "Manto Acuífero". Ne parla privilegiando tempi lenti e parsimonia, inquadrature fisse e ripetitive e facendo sembrare ogni scena enormemente dilatata e il movimento di scansione diminuito e ripetitivo.
Forse è per questo che si fa fatica ad entrare dentro la pellicola diretta da Michael Rowe, che di certo chiede pazienza al pubblico ed impiega un po' per farsi inquadrare negli intenti e nella velocità di azione. Perché la direzione che vuole prendere il suo "Manto Acuifero" non è certo una direzione facile, anzi, è una direzione scomoda, ignorata e temuta da chiunque prima abbia affrontato questo genere di situazioni.
La separazione messa in scena dal regista australiano infatti è netta, tagliente, elaborata per eliminare definitivamente una delle due parti genitoriali, mettendo fuori gioco un padre per sostituirlo con un altro non biologico, sperando che la mente, ancora plasmabile, di una bambina renda il processo agibile e meno complicato. La bambina in questione però non reagisce secondo le attese, accusa il cambiamento e lo rifiuta subconsciamente e consciamente, dando segnali di scarsa ambientazione nella nuova casa e ripristinando di nascosto i ricordi del vecchio matrimonio della madre in un pozzo abbandonato nel giardino di casa che gli era stato severamente vietato toccare dal suo secondo padre.
Ecco allora come man mano che il flusso scorre, gli eventi si accumulano e la tensione sentimentale sale, il progetto di Rowe prende forma, si modella, dimostrando coraggio e sicurezza e schiarendo le ombre e i dubbi che in fase di costruzione lo avevano avvolto. Il sostare perenne sul volto, le espressioni e i contesti (ardui) vissuti dalla bambina protagonista convogliano in gruppo dentro un finale terrificante in cui il processo psicologico avviato all'inizio divampa in una implosione che senza troppo rumore e spettatori promette di espandersi a poco a poco senza previsioni e misure sulla gravità dei rischi.
La disumanità trionfa a spese dell'innocenza, alimentata dalla convivenza e dalle regole di una coppia ma soprattutto di una madre, poco incline al mestiere, spaventosamente colpevole di una vita ormai prosciugata completamente dalla luce e ingoiata in un sol boccone dalle tenebre.
Una cruda realtà, a quanto pare, non tollerata da molti, a cui si preferisce fischiar contro piuttosto che prenderne atto.
Trailer:
NON DISPONIBILE
In sintesi parla di questo "Manto Acuífero". Ne parla privilegiando tempi lenti e parsimonia, inquadrature fisse e ripetitive e facendo sembrare ogni scena enormemente dilatata e il movimento di scansione diminuito e ripetitivo.
Forse è per questo che si fa fatica ad entrare dentro la pellicola diretta da Michael Rowe, che di certo chiede pazienza al pubblico ed impiega un po' per farsi inquadrare negli intenti e nella velocità di azione. Perché la direzione che vuole prendere il suo "Manto Acuifero" non è certo una direzione facile, anzi, è una direzione scomoda, ignorata e temuta da chiunque prima abbia affrontato questo genere di situazioni.
La separazione messa in scena dal regista australiano infatti è netta, tagliente, elaborata per eliminare definitivamente una delle due parti genitoriali, mettendo fuori gioco un padre per sostituirlo con un altro non biologico, sperando che la mente, ancora plasmabile, di una bambina renda il processo agibile e meno complicato. La bambina in questione però non reagisce secondo le attese, accusa il cambiamento e lo rifiuta subconsciamente e consciamente, dando segnali di scarsa ambientazione nella nuova casa e ripristinando di nascosto i ricordi del vecchio matrimonio della madre in un pozzo abbandonato nel giardino di casa che gli era stato severamente vietato toccare dal suo secondo padre.
Ecco allora come man mano che il flusso scorre, gli eventi si accumulano e la tensione sentimentale sale, il progetto di Rowe prende forma, si modella, dimostrando coraggio e sicurezza e schiarendo le ombre e i dubbi che in fase di costruzione lo avevano avvolto. Il sostare perenne sul volto, le espressioni e i contesti (ardui) vissuti dalla bambina protagonista convogliano in gruppo dentro un finale terrificante in cui il processo psicologico avviato all'inizio divampa in una implosione che senza troppo rumore e spettatori promette di espandersi a poco a poco senza previsioni e misure sulla gravità dei rischi.
La disumanità trionfa a spese dell'innocenza, alimentata dalla convivenza e dalle regole di una coppia ma soprattutto di una madre, poco incline al mestiere, spaventosamente colpevole di una vita ormai prosciugata completamente dalla luce e ingoiata in un sol boccone dalle tenebre.
Una cruda realtà, a quanto pare, non tollerata da molti, a cui si preferisce fischiar contro piuttosto che prenderne atto.
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