La Sedia della Felicità - La Recensione

Poco dopo aver terminato "La Sedia della Felicità" Carlo Mazzacurati è passato a miglior vita.
Difficile sapere se durante la fase di scrittura e riprese del suo lavoro il regista sapesse già di non avere più molto tempo a disposizione su questa terra, fatto sta che il messaggio che la sua ultima pellicola si fa carico di inviare al pubblico spicca quasi come un desiderio del regista a voler metterci in guardia, ognuno davanti a uno specchio, incoraggiandoci a guardare noi stessi da vicino.

Non è un film sulla crisi "La Sedia della Felicità" - anche se non parlare di crisi sarebbe comunque impossibile - tecnicamente è una caccia al tesoro, un tesoro nascosto, sequestrato e diviso, da ritrovare seguendo una mappa inesistente ma in un certo senso componibile. Principalmente allora a venir fuori sono i toni leggeri della commedia, inseriti come glassa su di un pan di spagna decisamente amaro e poco salutare. Il tatuatore di Valerio Mastandrea, l'estetista di Isabella Ragonese e il Padre di Giuseppe Battiston sono infatti la rappresentazione di una società (quella moderna) disposta a rinunciare ad ogni valore, un tempo rispettato, pur di soddisfare un desiderio di avidità figlio della corrente e delle circostanze. Eppure Mazzacurati vuol'esser discreto, meno brutale e severo possibile, perciò inscatola il suo giudizio bene e in profondità, privilegiando per grandissima parte della pellicola la ricerca sterile di ciò che oggi è felicità, incrementando lo humour con situazioni e comportamenti dei protagonisti ogni volta chiamati a far sempre un passo più lungo per avvicinarsi a una meta alla quale credono ma di cui sostanzialmente non hanno traccia.

C'è allora la volontà di scherzare ma soprattutto di riflettere, di risaltare i comportamenti scoppiati di una popolazione repressa e nevrotica, riluttante ai principi e disunita abbastanza da non tendere più una mano al prossimo in caso di necessità. La bellezza, o ancora meglio, l'importanza de "La Sedia della Felicità" quindi è racchiusa interamente nel riuscire a mettere in evidenza ciascuno di questi punti nella maniera più brillante e tenera possibile, ponendo quelli che sono diventati ormai i nostri tratti distintivi davanti a uno specchio, sussurrandoci all'orecchio che l'immagine che vediamo, sebbene sia quella di mostri brutti, sporchi e cattivi, non deve essere per forza l'unica possibile, e con la voce di una madre (o di un padre) avanza un'accenno alla calma lasciando entrare un poco di luce.

E la luce secondo Mazzacurati oggi è riposta lontano da tutto, lontano dal caos della cittadina, tra le montagne deserte e altissime, dove forse quel virus che ha contagiato lo spicchio più grande non è ancora riuscito a intaccare. Li si può ancora conoscere la bontà, i piccoli gesti, le piccole cose, venerare la bellezza di una donna, sorretti da pacifica tranquillità e spensieratezza.
E dunque è bello pensare che Carlo, prima di andarsene, abbia voluto lasciarci proprio questo: il segnale di un esistenza felice e serena ancora perseguibile e che purtroppo attualmente a noi mortali appare oltremisura sbiadito e impalpabile.

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