Lo Hobbit: La Battaglia Delle Cinque Armate - La Recensione

Bastano i primi quindici minuti di questo terzo e ultimo capitolo per rendersi conto che il cammino de "Lo Hobbit" sia stato diametralmente differente in confronto a quello lineare e ad incastro del precedente suo seguito. Basta intuire quanto il cut di Smaug, con cui chiudeva il precedente capitolo, non era affatto necessario, bensì obbligatorio, poiché serviva a mantenere alto quell'interesse che altrimenti si sarebbe esaurito nelle promesse di una battaglia tanto epica quanto fine a sé stessa.

In "Lo Hobbit: La Battaglia Delle Cinque Armate" infatti c'è, in dosi massicce, tutta quell'azione che a Peter Jackson gli era stata imputata come mancante nei primi due episodi della saga. Una guerra praticamente senza sosta aperta da un tutti contro tutti e modificata, in corso d'opera, in un tutto contro gli orchi. Ma mentre ciò ne "Il Signore Degli Anelli" era motivo di entusiasmo e divertimento in "Lo Hobbit" diventa esclusivamente intrattenimento e passatempo: un momento di fantasy gratuito, trasbordante e massiccio, non giustificato tuttavia da una storia che, purtroppo, non è mai riuscita a restituire quel coinvolgimento che ognuno di noi si aspettava e chiedeva. A giochi compiuti allora diventa più facile annunciare che di questo prequel, effettivamente, il bisogno non ce ne era affatto, e che Peter Jackson abbia dovuto davvero arrampicarsi sugli specchi per gonfiare quello che era un conflitto risolvibile facilmente in un paio di capitoli, che comunque sarebbero stati sempre di minor statura per via di un romanzo d'origine dedicato ad un target più piccolo e quindi con ambizioni più basse.

E forse è rintracciabile proprio nell'aver voluto ad ogni costo alzare queste ambizioni il maggior limite del franchise, il voler guardare alti, laddove prima si era arrivati, anziché magari limitarsi a compiere un lavoro rispettoso e in linea con le radici. La testardaggine con cui si è cercato ciclicamente di rendere interessanti dei personaggi di per sé anonimi e spesso fastidiosi come i nani, insieme alle battaglie per niente spontanee e trascinanti, con cui si voleva alzare un po' il ritmo stabilmente piatto, non hanno aiutato a migliorare una situazione che, a conti fatti, è sempre sembrata più piena d'aria che di contenuti.
Ma Peter Jackson si sa, ama la grandezza, lo spettacolo e riesce a non confonderli mai, per fortuna, con la megalomania, quella che davvero poteva danneggiarlo gravemente e limitare il suo lavoro a una pura operazione di marketing (che comunque da quelle parti rimane). Invece qualcosa di nuovo che va oltre il marketing Jackson al cinema è riuscito a portarla lo stesso, e per l'ennesima volta. Perché se il suo "Lo Hobbit" non rimarrà scolpito nella storia per magniloquenza e scioltezza, sicuramente lo rimarrà per via di quella tecnologia interessantissima e forse ancora tutta da scoprire dell'HFR 3D. Una targa diversa se confrontata a quella ricevuta con "Il Signore Degli Anelli", ma che allunga il tragitto di Jackson nel proclamarsi un innovatore del cinema, una persona che non cessa di sperimentare inedite tecnologie per contribuire, nel bene e nel male, a cambiare ulteriormente il modo di fare (e di fruire) il cinema, in questo caso aumentando il realismo e la partecipazione.

Ai titoli di coda di questa sua ennesima avventura, dunque, a noi resta scolpito un mondo che non solo abbiamo visto, ma ci sembra anche di avere vissuto, con il picco maggiore di un Drago meraviglioso che, specie in quest'ultima uscita, nelle sue poche scene si conferma punta di diamante indiscussa e spaventosa. Di certo sarà un viaggio che, rispetto al precedente, difficilmente ci verrà voglia di rifare, ma che speriamo serva a Jackson per chiudere definitivamente i battenti con Tolkien e la sua mitologia per continuare a scoprire e sperimentare in lidi completamente nuovi, utili magari a restituirgli quei podi da cui manca ormai da troppi anni.

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