Sopravvissuto: The Martian - La Recensione

Avevamo cominciato noi spettatori a fare ironia su "Sopravvissuto: The Martian", a dire che con Matt Damon sperduto sul pianeta Marte e Jessica Chastain a rinforzare il sontuoso cast, tutto facesse pensare ad uno spin-off naturale di "Interstellar": un modo per rendere quella piccola partecipazione inaspettata, presente nel film di Nolan, qualcosa di più succoso e stuzzicante. Scherzavamo, ovviamente, convinti di essere gli unici detentori di tale potere e, proprio per questo, Ridley Scott doveva stare attento, perché se già eravamo pronti a deriderlo in fase di riprese, molto di più avrebbe rischiato se a lavoro finito non ci avrebbe convinto e soddisfatto.

Ironia della sorte, però, nessuno di noi aveva considerato che il navigato Scott volesse essere il primo a ridere della sua pellicola, che mentre noi prendevamo in giro lui, lui si divertiva un mondo di più a girare la sceneggiatura scritta da Drew Goddard: dirigendo un Matt Damon astronauta-botanico incallito che, creduto morto sul pianeta rosso, decide di non cedere alla sfortuna e di colonizzarne una parte, coltivando patate come se niente fosse, in attesa del suo, eventuale, recupero. Dei temi antropologici, scientifici, ambientali, o di quelli più abusati, dove spiccano gli scontri tra alieni e uomini, "Sopravvissuto: The Martian" infatti si fa beffe, inseguendo i dettami della spensierata commedia e spiazzando su qualsiasi aspettativa, o previsione, elaborata sul suo conto in fase di origine. L'esito è il migliore a cui si potesse auspicare, se pensiamo che in un solo colpo, capovolgendo il taglio atteso a 360°, Scott va a schivare in blocco ogni trappola o archetipo immaginabile, calcando un territorio calpestatissimo come fosse appena stato scoperto, identificandosi un pochino con il suo meraviglioso e gradevolissimo protagonista e prendendo in contropiede ogni genere di spettatore.

La battuta, la satira, il nerdismo, vanno a comporre allora la colonna portante della sua opera, quell'aspetto imprescindibile a cui fare sempre ritorno, ogni qual volta, per esigenze di copione, c'è bisogno di fare un passo avanti nella trama e quindi di aggiungere quel filo di drammatizzazione, vincolante a non far perdere interesse e ritmo alla narrazione. Su questo Scott si conferma essere ottimo maestro, la sua esperienza e il suo talento entrano in azione quasi fossero un pilota automatico, un cuscinetto di salvataggio con cui coprire il bluff di una storia semplice, canonica, ma glassata di furbizia per evidenziarsi fresca e positiva. Un dato di fatto che tuttavia non va letto né come accusa e né come nota stonata, perché se è vero che dietro un operazione come questa c'è uno studio a tavolino lunghissimo ed elaborato, è ancor più vero che il riuscire ad accettarlo con un sorriso persino dopo averlo scovato, è segno di grande maestria e capacità di mezzi da parte di chi lo ha compiuto.

L'adattamento dell'omonimo romanzo di Andy Weir esce quindi in forma più che smagliante dalla sua metabolizzazione cinematografica. Le qualità di Goddard coadiuvate alla classe di Scott hanno probabilmente salvato il suo best-seller da esiti o troppo banali, o peggio ancora per niente riusciti, dissipando ogni profezia in un pugno di grosse (e presagite) risate.

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