Mistress America - La Recensione

Dire che “Mistress America” sia il cugino, o meglio ancora, il fratellastro di “Frances Ha” non sarebbe un’affermazione poi così distante dalla realtà. I due lavori sono gli unici della filmografia di Noah Baumbach a contenere la presenza in sceneggiatura della sua musa e compagna di vita Greta Gerwig (presente comunque anche davanti alla camera), che dal canto suo rimane assai utile al regista per fornire in prima persona, con gli occhi di chi c’è dentro fino al collo, quei tratti somatici di una generazione disastrata, in crisi ed esagitata.

Ci sono chiaramente delle nette differenze a dividere le due pellicole, la più evidente è la scelta, stavolta, di rinunciare a quel bianco e nero elegante, per un colore che, oltre ad accendere le immagini, vuole rappresentare un cambio di tono, propenso alla commedia e alla risata grottesca. Già, in “Mistress America” si ride molto infatti, ma se nella maggior parte dei casi la risata è preparata e liberatoria, in altri è ricoperta di amaro, quell’amaro contenuto nelle vite di ognuno dei personaggi - poco importa se ventenni o trentenni - e che Baumbach, ha ancora voglia di raccontare attraverso differenti sfumature e punti di vista. C’è un miscuglio di generazioni a darsi il cambio sulla scena, a manifestare gli squilibri e le nevrosi che, leste, spostano priorità e scelte confondendo le idee e scaraventando fuori strada. Dai ragazzi ventenni, incerti sul loro futuro a quei trentenni che, magari, il loro futuro l’hanno scelto, ma non è così corretto e oculato come teoricamente dovrebbe essere. E poi i più grandi, i genitori di quei ragazzi, anche loro con il dilemma di quali pesci conviene prendere e quali no, che si catapultano in decisioni affrettate, da rinegoziare in extremis, per limitare ulteriori danni ed errori.

Indirettamente è colpa dei genitori allora se Tracy - ragazza al college, aspirante scrittrice, con un solo amico al suo fianco - finisce sulla strada di Brooke, sua futura sorellastra per via del matrimonio che legherà, rispettivamente, la madre della prima con il padre della seconda. E’ colpa loro se quella solitudine incolmabile che Tracy sentiva a New York, repentinamente viene spazzata via dalla popolarità e dall’attitudine di Brooke, nel farsi risucchiare da quel mondo di feste, contatti, idee e progetti, dove ogni giorno è da vivere al massimo, come fosse l’ultimo. In lei, la ragazza, trova la figura che cercava e da cui prendere ispirazione, e non tanto per sé stessa, quanto per quel mestiere di scrittrice che fatica a mettere a fuoco e a far diventare cosa seria.
Ma Baumbach però vuole diversificare, vuole fare di “Mistress America” un opera relativamente pessimista, ma con un parziale gancio fantasioso che va a sposarsi al romanticismo. E di quel personaggio tendenzialmente negativo, che trascina Tracy in un caos grottesco ed assurdo, decide di farne, dunque, una sorta guru dai poteri involontariamente illuminanti: qualcuno incapace di curare l'infelicità propria, ma bravissimo a mettere sulla strada corretta coloro che ne entrano in contatto.

Con questo colpo di classe “Mistress America” confonde le acque, coprendosi di una maschera a tinte più allegre rispetto a quelle che, furbescamente, finge di nascondere sotto pelle. Ma un rutilante finale non basta a nascondere quelle evidenti lacune che sia Baumbach che la Gerwing sanno benissimo andare oltre i loro personaggi, affliggendo, se non tutti, almeno buona parte di noi.

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