Room - La Recensione

Svelare il motivo per cui il piccolo Jack, fin dalla nascita, è cresciuto all'interno di una stanza strettissima, in compagnia di una madre disperata, che non vuole fare altro che proteggerlo, facendogli vivere un infanzia, per quanto possibile normale, giustificando le immagini della televisione che guardano come frutto di una magia, sarebbe un torto che non ci sentiamo in dovere di fare. Conoscere il primo colpo di scena di "Room", tra l'altro, non è neanche così necessario - perlomeno non in anticipo - considerando che la sua portata massima non risiede tanto nell'ottima costruzione narrativa, quanto nelle emozioni e nei sentimenti che è in grado di stimolare.

E' una pellicola viscerale, infatti, quella diretta da Lenny Abrahamson, una pellicola in cui tutto si fa relativo e secondario in confronto alla forza e all'amore del rapporto madre-figlio posto al centro. C'è qualcosa di terribile accaduto nelle loro vite, qualcosa che li ha costretti nella condizione brutale di cui sopra e che, una volta messa alle spalle, lascia su di loro degli effetti collaterali inevitabilmente da gestire e da curare. C'è da (ri)prendere contatto con l'esterno, per esempio, con quello spazio infinito che se in un primo momento poteva significare liberazione e felicità, in un secondo diventa sinonimo di paura e di angoscia. Uno shock in cui si deve passare attraverso o sopperire, complicato in modo diverso per entrambi e, a caldo, assai meno rassicurante di quella Stanza che comunque aveva rappresentato per loro gli attimi di gioia e di felicità più recenti. Bisogna affrontare il passato e il presente, insomma, prima di rimboccarsi le maniche ed andare incontro al futuro, bisogna riscrivere ogni regola, imparare da capo ciò che si credeva di sapere ed essere pronti a ciò che invece nemmeno si pensava di dovere affrontare.

L'unico modo per superare queste difficoltà, secondo "Room", è aggrappandosi l'uno all'altro in modo diverso, cominciare a muoversi in quei spazi, ora a disposizione, e provare a fidarsi del prossimo pur senza perdere mai di vista quel punto di riferimento fondamentale per la nostra vita. Riesce ad essere sensibile nella maniera più moderata Abrahmson, in questo frangente, a raccontare il parziale distacco di un rapporto, per certi versi necessario, col giusto tatto, scatenando lacrime di commozione a più riprese quando a rendersi conto dei problemi di una madre non ancora riabilitata alla normalità quotidiana, ci sono le parole di un bambino fresco, fresco di sapere e di esperienza. Bastone e carota quindi, per il regista, che con la sua pellicola si permette il lusso di non far accomodare mai lo spettatore in un brodo di giuggiole e di rimetterlo in agitazione con durezza quando la situazione lo richiede e la trama accenna alla costanza, provocando così' un ritmo convulso e mai rilassante capace di esaltare la sensibilità e la tensione.

Sa il fatto suo, dunque, Abrahmson, non c'è che dire: sa come non essere pedante e allo stesso tempo come non diventare né retorico e né smielato. La sua pellicola rasenta quasi la perfezione assoluta, raccontando una storia originale e splendida (tratta dal romanzo di Emma Donoghue, la quale è anche sceneggiatrice) che non smette mai di convincere e di appassionare - fazzoletto alla mano - chi la sta guardando.

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