Questo film non è su Pablo Neruda, ma su quello che lui ha fatto per noi, per il popolo cileno.
Un concetto che ci tiene a sottolineare, Pablo Larrain, per evitare che qualcuno possa cadere nel tranello ed etichettare il suo “Neruda” come il biopic che invece non è.
E in effetti il suo film è tante cose, un poliziesco, un noir, un western, a volte è persino una commedia nera, ma un biopic di certo non lo è mai, ed è forse il motivo principale che lo rende unico ed incredibile. La responsabilità ed il peso abnorme di raccontare un personaggio complesso come Neruda infatti, per Larrain era qualcosa di pericoloso, di complicato, sia perché il suo cinema ha bisogno di respiro, di libertà, non certo di paletti e sia perché in patria, il poeta, rappresenta ancora oggi una figura (politica) fondamentale. Per cui, a guardarlo “Neruda”, si rimane di stucco, sbalorditi da una trovata registica straordinaria che prende sul serio la dichiarazione del suo protagonista – quella di non ricordare precisamente se il suo periodo di fuga dal fascismo cileno fosse parte della realtà, di un sogno, o della sua immaginazione di scrittore – giocando con la scenografia e gli ambienti attraverso sbalzi dove lo sfondo alle spalle degli attori finisce per diventare, in qualche modo, precario, superficiale e accessorio. Un modo di razionalizzare sopra le righe che Larrain sente nerudiano e fa suo, replicandolo cinematograficamente con un racconto focalizzato sugli archetipi di un fuggitivo e di un ispettore di polizia piuttosto discutibile, che senza darsi pace, quasi come motivo unico di vita, si rincorrono e si odiano, sebbene nel profondo sappiano di volersi bene, di esser simili e imprescindibili l’uno con l’altro.
Genialità e leggerezza, se vogliamo, di chi, comunque, non ha la minima intenzione di svincolare dalla politica, dalle battaglie, i soprusi e il sangue dello spaccato (breve, ma decisivo) di cui si fa carico (siamo in Cile, tre anni dopo la Seconda Guerra Mondiale). Perché la violenza in “Neruda” c’è e fa male, seppur solo discussa a parole e messa nero su bianco dalle poesie di rabbia che vengono lette ad alta voce dal poeta/uomo politico celebrato dal popolo. Un segnale di eleganza, di intelligenza, con cui il suo regista riesce a far percepire chiaramente la tensione del momento storico senza dover per forza entrare direttamente in scene dure, gratuite e conflittuali con il resto. Creare uno strappo nell'ossessiva rincorsa tra il cacciatore Gael García Bernal e la preda Luis Gnecco, d'altronde, avrebbe solo guastato l’atmosfera e lo spirito della sua opera, avrebbe distolto da quell'esilarante gioco tra gatto e topo, con libri gialli sparsi qua e là, come briciole di pane, utilizzati per mettere pepe ad una persecuzione teoricamente aggressiva, ma praticamente irresistibile e assurda: una persecuzione costantemente a metà e al confine, appunto, tra la finzione, l’attendibile e il fantasioso.
Un gioco che, a volte, sembra creato apposta per voler far dimenticare quella figura gigante (e il momento) posta al centro, mascherandola e truccandola come fosse cartoonesca o appartenente ad un mondo onirico e inaccessibile, fantastico, se non impossibile.
Eppure, alla fine della corsa, è emozionante accorgersi di quanto Neruda sia sempre stato lì. Chiaro, definito, completo. Il poeta romantico, comunista, appassionato di bordelli e prostitute che si è battuto politicamente affinché il suo paese mettesse fine all'oppressione del Presidente Videla e incontrasse la pace. Vicino a lui, poi, c’è Larrain. Chiaro, definito e completo allo stesso modo. Il regista cileno, devoto all'icona che ha rivoluzionato il suo paese e che si è battuto affinché il suo film onorasse il mito e allo stesso tempo non schiacciasse la sua persona e la sua vena creativa.
Due uomini grandi, tenaci, forti e valorosi che, sicuramente, se avessero vissuto nella stessa epoca sarebbero stati ottimi amici e perfetti compagni di bevute.
Trailer:
Un concetto che ci tiene a sottolineare, Pablo Larrain, per evitare che qualcuno possa cadere nel tranello ed etichettare il suo “Neruda” come il biopic che invece non è.
E in effetti il suo film è tante cose, un poliziesco, un noir, un western, a volte è persino una commedia nera, ma un biopic di certo non lo è mai, ed è forse il motivo principale che lo rende unico ed incredibile. La responsabilità ed il peso abnorme di raccontare un personaggio complesso come Neruda infatti, per Larrain era qualcosa di pericoloso, di complicato, sia perché il suo cinema ha bisogno di respiro, di libertà, non certo di paletti e sia perché in patria, il poeta, rappresenta ancora oggi una figura (politica) fondamentale. Per cui, a guardarlo “Neruda”, si rimane di stucco, sbalorditi da una trovata registica straordinaria che prende sul serio la dichiarazione del suo protagonista – quella di non ricordare precisamente se il suo periodo di fuga dal fascismo cileno fosse parte della realtà, di un sogno, o della sua immaginazione di scrittore – giocando con la scenografia e gli ambienti attraverso sbalzi dove lo sfondo alle spalle degli attori finisce per diventare, in qualche modo, precario, superficiale e accessorio. Un modo di razionalizzare sopra le righe che Larrain sente nerudiano e fa suo, replicandolo cinematograficamente con un racconto focalizzato sugli archetipi di un fuggitivo e di un ispettore di polizia piuttosto discutibile, che senza darsi pace, quasi come motivo unico di vita, si rincorrono e si odiano, sebbene nel profondo sappiano di volersi bene, di esser simili e imprescindibili l’uno con l’altro.
Genialità e leggerezza, se vogliamo, di chi, comunque, non ha la minima intenzione di svincolare dalla politica, dalle battaglie, i soprusi e il sangue dello spaccato (breve, ma decisivo) di cui si fa carico (siamo in Cile, tre anni dopo la Seconda Guerra Mondiale). Perché la violenza in “Neruda” c’è e fa male, seppur solo discussa a parole e messa nero su bianco dalle poesie di rabbia che vengono lette ad alta voce dal poeta/uomo politico celebrato dal popolo. Un segnale di eleganza, di intelligenza, con cui il suo regista riesce a far percepire chiaramente la tensione del momento storico senza dover per forza entrare direttamente in scene dure, gratuite e conflittuali con il resto. Creare uno strappo nell'ossessiva rincorsa tra il cacciatore Gael García Bernal e la preda Luis Gnecco, d'altronde, avrebbe solo guastato l’atmosfera e lo spirito della sua opera, avrebbe distolto da quell'esilarante gioco tra gatto e topo, con libri gialli sparsi qua e là, come briciole di pane, utilizzati per mettere pepe ad una persecuzione teoricamente aggressiva, ma praticamente irresistibile e assurda: una persecuzione costantemente a metà e al confine, appunto, tra la finzione, l’attendibile e il fantasioso.
Un gioco che, a volte, sembra creato apposta per voler far dimenticare quella figura gigante (e il momento) posta al centro, mascherandola e truccandola come fosse cartoonesca o appartenente ad un mondo onirico e inaccessibile, fantastico, se non impossibile.
Eppure, alla fine della corsa, è emozionante accorgersi di quanto Neruda sia sempre stato lì. Chiaro, definito, completo. Il poeta romantico, comunista, appassionato di bordelli e prostitute che si è battuto politicamente affinché il suo paese mettesse fine all'oppressione del Presidente Videla e incontrasse la pace. Vicino a lui, poi, c’è Larrain. Chiaro, definito e completo allo stesso modo. Il regista cileno, devoto all'icona che ha rivoluzionato il suo paese e che si è battuto affinché il suo film onorasse il mito e allo stesso tempo non schiacciasse la sua persona e la sua vena creativa.
Due uomini grandi, tenaci, forti e valorosi che, sicuramente, se avessero vissuto nella stessa epoca sarebbero stati ottimi amici e perfetti compagni di bevute.
Trailer:
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