Rachel - La Recensione

My Cousin Rachel Mitchell
Che a Roger Michell interessasse esclusivamente firmare solo un remake di “Mia Cugina Rachele”, in tutta onestà, stentavamo a crederci. L’improvvisa passione per il romanzo scritto da Daphne du Maurier nel 1951 - e adattato per il cinema l’anno successivo da Henry Koster - che lui stesso ha ammesso di aver divorato in una notte intera, nella quale l’insonnia l’aveva preso di mira, doveva contenere altro, probabilmente, oltre a una solidissima base di partenza per un racconto a metà fra il thriller e quel romance che lui tanto riesce a esaltare. Nascosto tra le righe doveva averci trovato qualche messaggio che all'epoca, chissà, era meno palpabile, uno spunto, o un intuizione per la quale valeva la pena scomodare un classico della letteratura, aggiornandolo liberamente ai tempi moderni.

Riflessione che trova riscontro in quello che, a tutti gli effetti, è un film intelligente e magnetico, capace di assolvere alla sua funzione strettamente intrattenitiva e di genere, ma anche di andare a lavorare intensamente sulle psicologie dei protagonisti, rendendoli al tempo stesso più vulnerabili e quindi umani. Nello specifico si concentra sull'orfano Philip, il regista, sulla sua condizione che lo ha portato ad essere cresciuto da un cugino misogino che non gli ha permesso di avere un minimo di padronanza legata a quel mondo femminile che in pratica (non) conosce unicamente nelle vesti semi-silenziose e dimesse di Louise, la piacente figlia del suo padrino che tutti, escluso lui, amano battezzare come sua compagna naturale. Un presupposto non da poco, che va a fare l’intera differenza del mondo quando nella sua dimora fa breccia una Donna - con la D maiuscola, appunto - come la Rachel interpretata da Rachel Weisz: ovvero colei che Philip sospetta abbia contribuito alla morte del proprio cugino durante il suo viaggio in Toscana; alla quale è deciso dunque a dichiarare guerra spietata, ma che non appena gli si palesa davanti agli occhi, col suo modo di fare dolce e una bellezza disarmante, senza muovere dito riesce letteralmente a rivoltarlo come un calzino.

My Cousin Rachel MitchellNoi la vediamo il più delle volte vestita di nero, in lutto, devastata dalla perdita di un marito che a suo dire (e vedere) amava incondizionatamente, a prescindere dai deliri che nell'ultimo periodo lo facevano farneticare e diventare violento. Vestita di nero però anche perché nera è la famosa vedova, quell'animale pericoloso che non a caso Mitchell evoca passivamente per accrescere i dubbi e i sospetti che aleggiano attorno ad un personaggio troppo buono e gentile per essere vero. Un personaggio che per femminilità, sensualità ed esperienza con gli uomini e di vita, inconsciamente si fa presto (prestissimo) per Philip attrazione totale, rappresentando per lui sia un desiderio sessuale da soddisfare che il punto di riferimento materno che non è mai riuscito ad avere. Ed è qui, sostanzialmente, che questo “Rachel” mette la freccia, si sposta, dando magari meno peso a un mistero e a una vicenda grossomodo nota, per accentuare il rapporto disturbante e impari tra Rachel e Philip, un rapporto che, grazie anche al comportamento di lei nei suoi confronti (nonostante i suoi venticinque anni gli parla spesso come una madre parla al suo bambino; lo chiama cucciolo, annientandone di fatto la virilità), via via è sempre più simile a quello di una madre con il proprio figlio: salvo il fatto che, a un certo punto, i due inevitabilmente finiranno a letto insieme.

Cambia le prospettive allora Mitchell, le rimescola, realizzando un thriller psicologico che finge di guardare da un lato per poi virare, astuto, dall'altro opposto. Sguardi, silenzi, leggerezze apparentemente legate alla sceneggiatura, tutto nella sua pellicola verte infatti verso la torbida relazione (non)madre-figlio instaurata, verso il senso di colpa di una donna giunta con un piano, eppure travolta, per sua stessa sorpresa e suo malgrado, da qualcosa di incalcolabile e di sconosciuto. Una donna che all'improvviso, da probabile mangiatrice di uomini quale era, forse incautamente, comincia a fare i conti con l’amore, un amore sbagliato (vedi la rappresentazione dell’unica scena di sesso esplicita), un amore di cui ha paura, un amore di cui sa benissimo essere, a più livelli, carnefice e singola responsabile, perché assai più lucida ed esperta in materia di un ragazzo, si maggiorenne, ma guidato dal subconscio e da un (improprio) complesso di Edipo.

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