À Pied D'Œuvre - La Recensione

C'è un patto con la storia che, a mio avviso, è fondamentale stringere durante la visione di "À Pied D'Œuvre". Forse dipende dalla mia ignoranza in materia - sicuramente, anzi - o forse da una sceneggiatura che, avendo intenti più nobili ha preferito dare meno peso a qualcosa che, però, al cinema, di peso ne ha parecchio. Chi lo sa?

Sta di fatto che nel film co-scritto - con Gilles Marchand - e diretto da Valérie Donzelli c'è un fotografo di successo - di quelli che arrivano a guadagnare fino a 8000 euro al mese - che decide di cambiare mestiere e dedicarsi alla scrittura. Una scelta dettata dal bisogno di scrivere, ammette, ma che non lo ripaga abbastanza, a prescindere dalle pubblicazioni - 3 libri- e il buon numero -5.000 - di copie vendute dal suo ultimo libro. Per tirare a campare, allora, Paul - questo il nome del protagonista interpretato da Bastien Bouillon - si iscrive ad una di queste app in cui persone comuni cercano tuttofare per dei lavoretti estemporanei - tagliare l'erba, smontare un soppalco, raggiungere l'aeroporto - assegnati tramite un'asta al ribasso, al candidato dal costo della mano d'opera più economico. Un cambiamento radicale, insomma, che lo costringe a lasciare casa, ad allontanarsi dai suoi figli - e dalla ex moglie, trasferitasi in Canada - e a vivere sempre più al limite con la povertà. Eppure - e qui arriviamo a quel famoso patto - mentre ciò accade, nella mia testa continuava a ripetersi sempre la stessa domanda: Perché non torni a fare il fotografo? Perché smontare armadi, tagliare prati, montare mobili per venti euro è una soluzione migliore, rispetto al tuo vecchio lavoro, con il quale riuscivi a fare una vita da ricco? Perché non riprendere in mano la fotocamera e scattare foto part-time? A tutti questi interrogativi, Donzelli non risponde mai, né con un dialogo, né con una scena esplicativa. Dando per scontato, forse, che lo spettatore sappia qualcosa che - nel mio caso, almeno - non sa, oppure aggrappandosi al fatto che quella che sta raccontando sia una storia vera -tratta dall'omonimo romanzo di Franck Courtèse -e, quindi, sufficientemente attendibile in ogni sua declinazione.

Nel film, tuttavia, la scelta di Paul e le conseguenze che deve affrontare, servono più che altro a mettere sul tavolo la crisi e i paradossi della nostra era, quella post-capitalista. A ragionare su cosa significhi essere schiavi, ed essere liberi, ma anche su quel divertente cortocircuito che spesso ci capita di sentire e che divide i poveri dai veri poveri. Come se il contrario di una parola, ormai dipendesse dall'aggiungerci il "vero" davanti, dice a un certo punto Paul: vero lavoro, vero diploma, ecc. E lui, che per inseguire il suo sogno ha perso praticamente qualsiasi cosa (portatile a parte), povero lo è diventato, ma non abbastanza come quei mendicanti indiani dei mercatini locali, gli ricorda la sorella. Eppure, lo vediamo isolarsi, incupirsi progressivamente, provare vergogna davanti agli amici che (non) lo riconoscono nella sua nuova veste, mentre i figli adolescenti, spaventati, chiedono alla madre cosa stia passando nella testa del loro padre (assente). Peccato che questa disperazione, per quanto drasticamente oggettiva e attendibile rischia di rimanere - per quanto mi riguarda, ripeto - incastrata dal mistero irrisolto di cui sopra, che resta un asso nella manica che, fino a prova contraria, avrebbe potuto far saltare il banco e troncare di netto il conflitto.

Per cui, sì, è giusto chiedersi se è più schiavo (o più libero) chi passa otto ore in un'azienda con il contratto a tempo indeterminato (vessato, sottopagato, magari), oppure chi a quello stile di vita ha rinunciato, ribellandosi e seguendo (felicemente) il cuore, ma costringendosi a vivere alla giornata. E' giusto analizzare il problema di una società in crisi che non la smette mai di correre e che si arrovella per trovare il modo di andare ancora più veloce, anziché decelerare. Una società che mette il consumismo davanti al proprio benessere, alle sue passioni e dove l'arte e la creatività sembrano non trovare più né spazio, né il valore che si meritano. Tutti comportamenti autodistruttivi e letali che ci stanno rovinando pian piano e che abbiamo già cominciato a pagare profumatamente. L'unico dubbio è perché affrontare questo malessere esistenziale lasciando vuoti (di scrittura) che, proprio perché in grado di mettere in bilico la credibilità del contesto, rischiano di impedire a una fetta (?) di spettatori di entrare davvero e totalmente nella tormentata essenza della pellicola. Quando bastava davvero poco per dispensare un'informazione e fugare ogni incomprensione.

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