Quando un cineasta è ossessionato da una storia e sogna di realizzarla a qualunque costo, solitamente è un pessimo presagio. In passato dinamiche di questo tipo sono state già raccontate e, vuoi per colpa di una produzione non all'altezza, vuoi per quel distacco emotivo che, forse, chi lo sa?, rischia di fare assai la differenza, succede che le opere realmente compiute e valide siano sempre in minoranza, rispetto al numero di tentativi.
Tuttavia, quando Guillermo Del Toro ha annunciato che finalmente qualcuno - Netflix - gli aveva concesso il privilegio di dedicarsi al suo "Frankenstein", un minimo di curiosità era lecito coltivarla. Nonostante continui a reputare molto stancante questa (finta) moda di voler rileggere (rimodernare?) i classici al cinema e nonostante mi ritenga uno dei pochi (credo) a considerarlo un autore fin troppo sopravvalutato. Eppure, al pronti via, la sensazione è stata piuttosto positiva, incoraggiante, con questa maestosità e imponenza che trasbordano dallo schermo, sia dal punto di vista visivo che narrativo. L'apertura tra i ghiacci è affascinante, coinvolgente, fotografata magnificamente e controbilanciata dalla presenza oscura di questo mostro violentissimo che sembra avere in corpo una furia cieca, implacabile. Ma siamo appena all'incipit, alla premessa designata ad aprire le porte al primo capitolo della pellicola (saranno due), quello narrato dal punto di vista del Victor di Oscar Isaac e in cui Del Toro non sente ancora il bisogno di stravolgere troppo il romanzo originale, firmato Mary Shelley. Perché, al di là, di qualche cambiamento - ambientazione, composizione della famiglia, relazioni più o meno morbose - il tocco e l'impronta del regista e sceneggiatore messicano restano lievi, fedeli a un materiale di partenza al quale si accontenta di variare al massimo le sfumature e i contorni.
Bisogna attendere l'arrivo della nascita del mostro, infatti, per assistere a una sterzata, per vedere Del Toro cominciare a piegare "Frankenstein" verso il suo mondo, la sua poetica. E, paradossalmente, è proprio il momento in cui il suo lavoro comincia a scricchiolare di più, a perdere aderenza e coinvolgimento. Il suo obiettivo è quello di trovare un escamotage (filmico) per salvare la creatura, concedergli la possibilità di sopravvivere, a prescindere dal suo destino e dalla solitudine a cui, teoricamente, è condannata. Ma certe dinamiche che dovrebbero portare a ciò - compreso il ribaltamento dei ruoli che vede Victor prendere coscienza di essere lui il vero mostro - vengono gestite in maniera decisamente frettolosa, superficiale, incoerente: basti pensare a come agisce l'Elizabeth di Mia Goth quando la creatura fa irruzione al suo matrimonio (un comportamento mai credibile). Peraltro, parliamo di un freak verso il quale noi spettatori dovremmo nutrire un minimo di empatia, provare dei sentimenti, altrimenti non avrebbe senso stravolgere la sua parabola e avvicinarlo - idealmente, almeno - a una sorta di Edward Mani di Forbice. Eppure - e non penso sia demerito di Jacob Elordi - per accorciare questo spazio non c'è mai tempo, né modo, la scena che dovrebbe aiutare a farlo - con un branco di lupi che vengono massacrati a mani nude - è un buco nell'acqua е а persistere è una freddezza di fondo che può solo farsi ghiaccio.
Un giocattolone, insomma, che tirato fuori dalla scatola, dà meno soddisfazioni di quelle promesse dagli slogan stampati sulla confezione. Potremmo riassumerlo così questo "Frankenstein" di Del Toro, una creatura che avrà di sicuro fatto la felicità del suo creatore, ma che difficilmente, oltre lui, avrà la forza e la bellezza di seminare altri entusiasmi.
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