Mood Indigo: La Schiuma Dei Giorni - La Recensione

Diciamo che qualche sassolino dalla scarpa Michel Gondry voleva levarselo dopo l'esperienza, non proprio felicissima, avuta durante la lavorazione di "The Green Hornet". Adattare il romanzo di Boris Vian, "Mood Indigo: La Schiuma Dei Giorni", per lui voleva dire molto di più che tornare a prendere i contatti con un tipo di cinema, quello d'autore e indipendente, che meglio gli calza e più gli permette di sperimentare. Significava infatti ridare fedeltà a a sé stesso e, di conseguenza, tornare a stare bene.

Perché se a consumare l'amore dei due protagonisti, e lo stato di salute di lei, nella pellicola è una ninfea che cresce all'interno del petto e strozza i polmoni, allora lo stesso per Gondry deve essere stata l'opportunità di firmare un lavoro che lo ha portato a scontrarsi con realtà ben differenti e alle quali non era abituato, rimanendone infine unico sacrificato.
E' sullo stato emotivo del regista quindi che "Mood Indigo: La Schiuma Dei Giorni" va a cucire la sua membrana interiore, coperta all'esterno da un rivestimento melodrammatico che ad alcuni potrebbe risvegliare gli stessi sapori e le stesse atmosfere che circondarono il suo celebre "Eternal Sunshine of the Spotless Mind" (in Italia temporaneamente maltrattato con la traduzione "Se Mi Lasci Ti Cancello"). In realtà la sfera romantica avvolta intorno all'amore che sboccia tra Colin e Chloé è forse il pedale maggiormente debole di una trama che ha intenzione di mettere in risalto determinati aspetti di una sperimentazione negativa con l'intenzione di esorcizzarla e cancellarla dalla mente in maniera così morbosa e nervosa da rischiare di perdere il controllo della gomma e consumare il foglio di carta arrivando addirittura allo strappo.

Se è verissimo infatti che "Mood Indigo: La Schiuma Dei Giorni" segna il ritorno totale di Gondry al cinema più artigianale e magico, favolistico, sognante e sognatore e fuori da ogni standard canonico, c'è da sottolineare che la forza con cui lui vuole (ri)affermarlo e (re)imprimerlo questa volta è raddoppiata se non forse triplicata rispetto alla norma. C'è un quasi snobbismo verso la potenza di un'amore che nonostante tutto continua a vivere e a respirare pur rovinando cose e persone che gli girano attorno con un veleno inallontanabile, c'è un metodico disinteresse che dice chiaramente che non è quello il fiore all'occhiello della sua opera, quanto invece il mostrare come le cose più belle possono venir distrutte da altre cose piccolissime, a volte belle anch'esse, che non ci aspetteremmo mai di prevedere.

Son le cose che cambiano, non le persone.
Santifica questo concetto la pellicola e ci riporta in quei mondi vitali, dove a vivere non sono solo le persone ma anche i piatti, gli oggetti e gli ambienti. Gondry grida al suo pubblico che non è cambiato, che le cose, gli eventi, capitati hanno provato a fargli del male ma lo hanno solo indebolito, messo fuorigioco, e che ora è tornato più volenteroso e in forze di prima.

Ecco quindi che la celebrazione e la salvezza del topolino della sua storia porta con sé un messaggio di speranza residua rifugiatasi in una realtà più piccola, quella in cui lui è ritornato, eppure - ed è un dato di fatto - la passione battente di un tempo nella sua anima è calata ed il suo cuore pulsa ancora sotto frequenze minori.
Sarà magari la fase di una convalescenza fisiologica non terminata, tuttavia, il suo rimprovero ad una Hollywood priva d'umanità e di valori (compresi i più sacri) somiglia più a una terapia personale che a una sarcastica e velata critica tagliente.

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