Di certo c'è che Wes Anderson ha messo da parte un credito piuttosto rilevante.
Un credito che gli permette non solo di continuare a fare film - e cinema - come gli pare e piace, ma pure di continuare ad attirare l'attenzione di noi spettatori che, ammettiamolo, è da un po' che lo vediamo piuttosto sottotono. Un credito che, pure, è incrementato dall'immenso privilegio che ha, ogni volta, di mettere su un cast d'attori (di amici?) eccezionale, unico, capace di testimoniare il grande divertimento che si vive all'interno dei suoi set e che noi, purtroppo, possiamo solo ipotizzare, immaginare. Perché incapace, almeno ultimamente, di venire impresso su pellicola.
Si rischia, allora, di ritrovarsi a scrivere sempre la stessa cosa, di ripetersi, quando si parla dell'Anderson recente. Il che fa un po' ridere, perché la pratica farebbe il paio anche con la sua di deriva: quella di ripetersi, di mettere in scena sempre lo stesso concetto (di cinema), lo stesso spettacolo. Certo, cambia il contesto, a loro modo cambiano i personaggi, ma il succo, l'essenza e la sensazione, è che ci si trovi comunque ancora là dove eravamo rimasti (insoddisfatti). E "La Trama Fenicia" in questo senso non fa eccezione, o se la fa, è per via di alcuni segnali, quasi impercettibili, che magari farà piacere cogliere agli spettatori di vecchia data. Segnali che non bastano a riesumare la vivacità e l'estro di un autore forse impigrito, forse stanco, o chissà in quali condizioni. Sì, c'è un Benicio Del Toro che vale da solo il prezzo del biglietto (e si sa), una dinamica padre-figlia che tenta di rispolverare i lustri dell'Anderson che fu (il migliore) e quella messa in scena cartoonesca - una firma, ormai - che, tra pregi e difetti, si barcamena tra momenti esilaranti e momenti ridondanti, sprecati. Di davvero positivo, invece, una trama finalmente degna di definirsi tale, con questo magnate internazionale e iper-ammanicato, soggetto ad attentati pericolosissimi, che vuole tutelarsi e anticipare il passaggio di consegne alla sua figlia legittima (oppure no), prossima a farsi suora.
Quindi una spy-story, perché c'è qualcuno che vuole vedere lo Zsa-zsa Korda di Del Toro morto e sepolto. Una commedia, perché solo contro il mondo, Zsa-zsa deve proteggere i suoi interessi e il suo progetto ambizioso, viaggiando di tappa in tappa per rinnovare (a suon di improvvisazioni folli) accordi economici che lo salverebbero dalla bancarotta. Ed, infine, il cuore della pellicola: quel rapporto tra un padre assente e sconosciuto ed una figlia che ha imparato a vivere senza di lui e a diffidarne. Tanta carne al fuoco, tanta potenzialità, tante buone idee, sviluppate tuttavia con un fare profondamente superficiale, leggero. Ed è quella leggerezza non produttiva, che fa rima con inconsistenza, con voglia di non affaticarsi troppo, di lasciare tutto cosi come viene, buttandola in caciara, il che non per forza vuol dire risata o spasso assicurati. Meglio, anzi, quando vengono aperte parentesi più ricercate, sincere, come le emozioni risvegliate da una famiglia - per nulla convenzionale - che cerca di riavvicinarsi e di sistemare gli errori e gli attriti. Ma la sensazione è che con un materiale del genere, uno come Anderson avrebbe potuto e dovuto tirar fuori un lavoro decisamente più autorevole, commovente, importante.
Eppure, si torna a casa di nuovo con la delusione in tasca, una delusione che adesso comincia a prendere il gusto dell'abitudine, perché quel credito di cui sopra si sta esaurendo e lo scenario è che Anderson prima o poi si ritrovi a fare come lo Zsa-zsa del suo film, e quindi a doversi rimboccare le maniche per evitare che quanto di buono costruito nel tempo non crolli giù definitivamente.
Speriamo di no. Speriamo si rianimi.
Speriamo di no. Speriamo si rianimi.
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