Ce lo domandiamo quando, nella prima ora di “Mission: Impossibile – The Final Reckoning”, arriva l’ennesimo spiegone necessario a collegare questa storia ai capitoli precedenti. Come se la minaccia presente fosse una conseguenza diretta degli eventi passati.
“Tutto ciò che lei è stato, tutto ciò che lei ha fatto, ha portato a questo!”, è l’antifona e la responsabilità che si sente ripetere ancora e ancora Ethan Hunt.
Eppure, è una forzatura. Una forzatura inutile.
Negli anni, infatti, la saga di Mission: Impossible ha spesso cambiato pelle, trasformandosi in una forma di spettacolo dove la trama era sempre più marginale e utile ad alzare l’asticella di difficoltà sulle imprese compiute dal suo protagonista. Ma, paradossalmente, qui la trama torna ad essere centrale ed il motivo ruota attorno alla figura di Hunt e al suo destino. Un destino che immediatamente, dal prologo, si intuisce dovrà avere un traguardo solenne, mitologico, fedele. Un po’ troppo, forse, e un po’ troppo fuori strada, per un franchise diventato eccessivamente di proprietà del suo front-man e che adesso, mischiandosi pure con la sua vita privata, rischia di perdere la forza e l’appeal che era riuscito a conquistarsi nel tempo. Perché in fondo, filtrato da questo genere di ragionamenti (religiosi) ingombranti e fuori luogo, “Mission: Impossibile – The Final Reckoning” di per sé ha persino un messaggio importante, che prende di petto l’intelligenza artificiale e, rispetto a quanto già trattato nel precedente episodio, ragiona su quanto questa possa influenzare ed abbia già influenzato la politica, l’economia e il pensiero della società mondiale. Guerre, governi, rivolte, visioni distorte della realtà, sono i risultati di questo algoritmo, di questa Entità che, se non venisse fermata ed eliminata alla svelta, potrebbe portare alla distruzione dell’intero pianeta.
Una vera e propria apocalisse – aridaje – a cui ci si può opporre unicamente tornando all’uso dell’analogico, alla vecchia scuola, senza ripudiare ovviamente l’utilizzo di una tecnologia alla quale forse – e questo è il quesito più importante e più attuale sollevato dal film di Christopher McQuarrie – abbiamo dato e stiamo continuando a dare smisurato potere. Una tecnologia nella quale, viceversa, Ethan e compagni si rifugiano, riducendola all’essenziale, tenendola costantemente in pugno e dominandola per evitare gli sfugga di mano.
Ed eccolo qui il pensiero lucido, il salvabile ed il buono di un ritorno non esattamente riuscito, anzi. Ma prevedere cosa accadrà ora a Mission: Impossibile e a Ethan è davvero una missione impossibile, sebbene per la prima volta, adesso, l'ipotesi che Cruise possa farsi da parte, dopo aver monopolizzato la sua creatura, non solo è credibile, ma per certi versi è anche necessaria.
“Tutto ciò che lei è stato, tutto ciò che lei ha fatto, ha portato a questo!”, è l’antifona e la responsabilità che si sente ripetere ancora e ancora Ethan Hunt.
Eppure, è una forzatura. Una forzatura inutile.
Perché appesantisce una pellicola che, per definizione, funziona meglio quando va dritta al punto, quanto il suo protagonista corre, lotta, ruba, inganna. Quando, insomma, viaggia libera da macchinosi ragionamenti, limitandosi a specificare l’obiettivo della missione, il cattivo e la posta in gioco. Stavolta no, invece. Stavolta c’è odore di epilogo, il famoso the last dance che prima o poi, lo sapevamo, sarebbe dovuto arrivare. Oppure no. Oppure in ballo c’è qualcos’altro, uno scopo metacinematografico, magari implicito, pure, perché se fosse il contrario allora il rischio è che diventi controproducente. Fatto sta che per conoscere la verità bisogna arrivare al traguardo di “Mission: Impossibile – The Final Reckoning”, ed è più facile farlo, quando, messi da parte i salti mortali di un immenso puzzle che trova logica solo per il rotto della cuffia, Tom Cruise comincia a fare ciò che ormai è il suo chiodo fisso: lo stuntmen. Lo vediamo scendere a centinaia di metri di profondità per recuperare un pezzo fondamentale da un sottomarino russo, disperso da circa un decennio. Una sequenza da togliere il fiato, tanto folle quanto palpitante e ansiogena. Il primo colpo di teatro di un capitolo che di jolly da giocare se ne è preparati ben due, ed il secondo è addirittura più assurdo e fuori di testa.
Negli anni, infatti, la saga di Mission: Impossible ha spesso cambiato pelle, trasformandosi in una forma di spettacolo dove la trama era sempre più marginale e utile ad alzare l’asticella di difficoltà sulle imprese compiute dal suo protagonista. Ma, paradossalmente, qui la trama torna ad essere centrale ed il motivo ruota attorno alla figura di Hunt e al suo destino. Un destino che immediatamente, dal prologo, si intuisce dovrà avere un traguardo solenne, mitologico, fedele. Un po’ troppo, forse, e un po’ troppo fuori strada, per un franchise diventato eccessivamente di proprietà del suo front-man e che adesso, mischiandosi pure con la sua vita privata, rischia di perdere la forza e l’appeal che era riuscito a conquistarsi nel tempo. Perché in fondo, filtrato da questo genere di ragionamenti (religiosi) ingombranti e fuori luogo, “Mission: Impossibile – The Final Reckoning” di per sé ha persino un messaggio importante, che prende di petto l’intelligenza artificiale e, rispetto a quanto già trattato nel precedente episodio, ragiona su quanto questa possa influenzare ed abbia già influenzato la politica, l’economia e il pensiero della società mondiale. Guerre, governi, rivolte, visioni distorte della realtà, sono i risultati di questo algoritmo, di questa Entità che, se non venisse fermata ed eliminata alla svelta, potrebbe portare alla distruzione dell’intero pianeta.
Una vera e propria apocalisse – aridaje – a cui ci si può opporre unicamente tornando all’uso dell’analogico, alla vecchia scuola, senza ripudiare ovviamente l’utilizzo di una tecnologia alla quale forse – e questo è il quesito più importante e più attuale sollevato dal film di Christopher McQuarrie – abbiamo dato e stiamo continuando a dare smisurato potere. Una tecnologia nella quale, viceversa, Ethan e compagni si rifugiano, riducendola all’essenziale, tenendola costantemente in pugno e dominandola per evitare gli sfugga di mano.
Ed eccolo qui il pensiero lucido, il salvabile ed il buono di un ritorno non esattamente riuscito, anzi. Ma prevedere cosa accadrà ora a Mission: Impossibile e a Ethan è davvero una missione impossibile, sebbene per la prima volta, adesso, l'ipotesi che Cruise possa farsi da parte, dopo aver monopolizzato la sua creatura, non solo è credibile, ma per certi versi è anche necessaria.
Pena, la rottura definitiva del giocattolo.
Trailer:
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