Oppure, stando alle sue parole che parlano di storia d'amore e di matrimonio (platonico) in corso, potremmo dire, addirittura evocata, riportata in vita. Come una sorta di missione, un compito: per restituire alla scrittrice e alla sua voce quell'importanza (storica e simbolica) che la società di allora le aveva negato e snobbato, trattandola con disprezzo e indifferenza.
Eppure, se guardiamo la sua storia, se guardiamo "Fuori" di Mario Martone - che è tratto dal romanzo "L'Università Di Rebibbia" scritto proprio da Sapienza - ci rendiamo conto di quanto aveva da dire questa donna, di quanto avesse da comunicare, suggerirci. Argomenti attuali, temi caldissimi, che negli anni '80, quando cercava di sollevarli e di raccontarli, veniva derisa da chi gli stava attorno, come se a parlare fosse una stupida, o più semplicemente una povera matta. E invece di repressione femminile, di carceri, (e di patriarcato, appunto, e di ipocrisie) stiamo ancora qui a discuterne oggi, riscoprendo i lavori (e il pensiero) di un'autrice che all'improvviso son diventati attualissimi, folgoranti, e che se non fosse stato per i francesi, forse, non avremmo ancora avuto modo di apprezzare come si deve. E' uno strano caso, infatti, quello di Sapienza, che fa quasi il paio, però, con la sua di stranezza, quella caratteriale, replicata efficacemente da Golino che è meravigliosa nell'intercettarla, nel comprenderla. Con un fare silenzioso, l'espressione aliena, quell'atteggiamento di chi vive la vita come se fosse perennemente sorpresa di continuare a farne parte, di coglierne le sfumature. E quella rivoluzione tutta personale e trascendentale nasce prevalentemente con l'esperienza in carcere, il quale ha rappresentato per lei una forma paradossale di libertà, di rinascita, di illuminazione. Lo afferma a chiare lettere persino in una scena: "Quando sono dentro con loro, per me è come stare fuori!". Un gioco di parole che vuol dire moltissimo, che spiega in un lampo come stavano le cose prima e quanto fossero rigidi i ruoli (e gli spazi) da rivestire.
E che non si faccia come nella scena (vera) dei titoli di coda in cui appare Enzo Biagi, per favore. Guai a fraintendere il binomio carcere-libertà e carcere-rinascita. Perché ci vuole un attimo a banalizzare tutto e a fraintendere. E, magari, l'unico modo per afferrare davvero quel concetto, decifrarlo e assimilarlo, è assistere ai momenti intimi e agli scambi tra Goliarda, Roberta e Barbara: il trio formatosi dietro le sbarre e che una volta libero continua a vedersi e a replicare quella modalità di convivenza, di unione, celebrandola quasi e promettendosi amore eterno. Un amore che, in questo caso, significa amicizia, supporto, fedeltà, ma che nel caso di Goliarda e Roberta - una Matilda De Angelis all'apice della sua bravura - diventa anche amore materno e sessuale. Ed è uno dei punti di forza della pellicola di Martone, che dall'ambiguità e dal contrasto tra le due donne - Goliarda silenziosa e assorta, Roberta indomabile, ma fragilissima - costruisce un romanzo di formazione capace di generare un fascino particolarissimo, una presa e un coinvolgimento emotivo che tiene vivissima la narrazione e contagia lo spettatore con una vitalità dal gusto liberatorio e rigenerante.
Non è un caso, perciò, che il finale di "Fuori" sia dedicato a loro due, ad un epilogo che è sia struggente che dolorosissimo. Con Goliarda che riceve in dono, probabilmente, il tassello mancante e fondamentale per il suo futuro e la sua eredità da scrittrice. Quei pezzi di vita che le permetteranno di finalizzare e di riaccendere "L'Arte Della Gioia", l'opera che conterrà poi l'anima, lo spirito e la natura della sua esistenza e che non poteva, per nessun motivo al mondo, restare a marcire in una cassapanca.
Trailer:
Commenti
Posta un commento