St. Vincent - La Recensione

L'immagine del vecchio burbero introverso, ostile con tutti e relegato a vivere tra smorfie di disapprovazione e bicchiere di alcool in mano, sta diventando uno stereotipo cinematografico ricercato e assai sfruttato. Il motivo è molto semplice: sdoganata con successo da Clint Eastwood in "Gran Torino", la formula dell'anziano arrabbiato col mondo, costretto alla relazione forzata (o relativamente forzata) con ciò che solitamente odia di più, o comunque non sopporta, può rivelarsi una strategia assai utile per dare adito a storie di riscatto e di crescita, dal forte tasso drammatico così come comico.

La strada scelta da Theodore Melfi per la sua opera prima è decisamente la seconda, con Bill Murray a fare da protagonista e a mettersi sulle spalle una pellicola che certamente non segnala nulla di rimarchevole, ma anzi si appoggia pigra a molto del già visto, del già sentito e del già detto. Eppure a "St. Vincent" non manca nulla, sulla carta, per affermarsi commedia esilarante e ottimamente preparata, neppure quella dose di furbizia a cui sporadicamente si aggrappa per non cadere e restare in piedi nei momenti più difficili, un attitudine comodissima, ma che tuttavia non riesce ad estendere nell'ambito della scrittura, dove invece Melfi (anche sceneggiatore) appare molto approssimativo e prescioloso, specie per quanto riguarda la risoluzione delle sottotrame e l'approfondimento del background dei protagonisti. Come se neanche se ne accorgesse infatti, il tempo eccessivo con cui decide di intrattenersi nelle battute iniziali della sua opera gli viene a mancare come acqua nel deserto nell'intera parte centrale, dove non riesce a muoversi con la dovuta serenità, piegandosi e accartocciandosi su sé stesso pur di non tardare all'arrivo.

Finché a tenere banco è il rapporto tra Murray e il piccolo Jaeden Lieberher (bravissimo e interessante promessa) perciò la situazione appare piuttosto stabile e sostenibile a livello scenico, ma quando a entrare in gioco arrivano i problemi personali e segreti dei due protagonisti - la moglie di Murray rinchiusa in un istituto e Melissa McCarthy alle prese con il marito che la cita in giudizio per l'affidamento del figlio - la pellicola comincia a soffrire della paura di non riuscire ad avere minutaggio a sufficienza per gestire al meglio ogni suo micro-conflitto, entrando quindi in confusione per poi accelerare improvvisamente e tagliare corto laddove c'era la necessità di andare lunghi e scavare. Su che fine fa il personaggio di Terrence Howard e su come si conclude la sua sottotrama allora resta il mistero assoluto, e lo stesso vale per ulteriori piccoli dettagli rilevanti (qual'è stata l'ultima goccia che ha costretto Murray a diventare così scorbutico?) di cui viene appena accennata presenza e mai affrontata la questione.

Complessivamente quindi "St. Vincent" è tutt'altro che compiuto, al massimo una bozza semi-definitiva a cui dover limare e aggiustare ancora qualche dettaglio prima di entrare in produzione. E un finale piuttosto commovente, insieme a un cast equilibrato e variegato, purtroppo non gli bastano per coprire quei dislivelli narrativi che alla lunga paga e che gli pregiudicano una resa globale che, infine, è poco più che accettabile e piacevole.

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