American Sniper - La Recensione

E' da qualche anno ormai che Clint Eastwood non si preoccupa più di tenere alti i suoi standard: quelli di inizio duemila, quelli che lo hanno portato all'Oscar, quelli insomma del cinema che vale. E' da qualche anno ormai che, come Woody Allen, la sua preoccupazione è diventata principalmente il non restare fermo, il voler dirigere sempre, comunque e a prescindere, occupandosi ancora di Storia (americana), ma altalenando risultati accettabili ad altri appena sostenibili.

Probabilmente uno script schizofrenico come quello di "American Sniper" l'Eastwood di dieci anni fa non lo avrebbe preso neanche in considerazione, o magari si, ma esigendo forse pesanti modifiche in cui sarebbe andato ad affinare le intenzioni di una pellicola che invece si trova a saltare - a seconda dei sviluppi - di palo in frasca, toccando trasversalmente il biopic formale e poi il genere guerra più esplicito, curvando lentamente in quello più introspettivo, mentre affoga in una retorica e in un patriottismo tanto banali quanto stonati. E pensare che dietro le gesta di Chris Kyle - autore del libro da cui il film prende spunto nonché eroe americano, inviato in Iraq e soprannominato La Leggenda per la sua infallibilità da cecchino - inizialmente, volontariamente o meno, apparivano nitidi alcuni tratti tipici delle pellicole dedicate ai supereroi: con la fase iniziale incentrata sulla ricerca di un identità personale, quella centrale in cui fuoriusciva la sua esplosione di talento e senso del dovere e la finale (larga) miscelata tra amore impossibile da coltivare e nemesi speculare da sconfiggere. In mezzo l'America, le Torri Gemelle, la disumanità della guerra e il nemico dipinto nettamente come male nudo e crudo. Un lavoro assai inedito e spiazzante per Eastwood, dunque, in cui non viene neppure risparmiata la variante del ritornello paterno da un grande potere derivano grandi responsabilità, che qui diventa una parabola su pecore, lupi e cani da pastore, dove gli ultimi sono chiaramente l'esemplare migliore da seguire perché, in maniera disinteressata, sa prendersi cura dei primi proteggendoli dai secondi.
Eppure neanche questo, scopriamo, essere un obiettivo che la pellicola intende seguire fino in fondo.

D'altronde di spunti "American Sniper" ne contiene parecchi, è evidente, ognuno di loro proveniente da un territorio non sostenibile o sconosciuto all'altro. L'errore che impedisce perciò il suo funzionamento, risiede più nella volontà di costringere questi spunti a dover collaborare (o convivere) tra loro, cercando una serenità e un amalgama inesistenti, per favorire le sorti di un racconto che, al contrario, accusa disomogeneità e assume forme incompiute e irregolari, praticamente impossibili da assemblare. La vera notizia quindi potrebbe essere il palese disinteresse ostentato da Eastwood nell'intero contesto. Lui, uno che il cinema lo conosce meglio delle sue tasche, ma che ultimamente anziché partecipare attivamente ai progetti che avalla, si limita sostanzialmente a dirigerli senza troppe domande, evitando di notificare, o magari correggere, quelle evidenti discordanze che dovrebbe intuire ad orecchio e sistemare a schiocco di dita.

Chissà se il suo carattere scorbutico, provocatore e tendenzialmente adatto a stimolare il pubblico - nel bene e nel male - da qualche parte esista ancora o se è stato nascosto, chiuso a chiave, dentro un cassetto segreto. Questo "American Sniper", in fondo, è l'ennesimo suo prodotto né carne né pesce, che non va da nessuna parte e porta con sé anche l'aggravante di essere spudoratamente pro-americano, ai limiti della tolleranza.
Se questo è ciò che è rimasto al regista di "Gran Torino" sinceramente saremmo più felici se si mettesse da parte, considerando che cinema di questo livello andrebbe limitato e non incoraggiato.

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