Jimmy's Hall - La Recensione

In un primo momento, durante l'ultimo festival di Cannes, Ken Loach aveva dichiarato che "Jimmy's Hall" sarebbe stato il suo ultimo film. Che arrivato all'età di settantotto anni era giunto il momento di smettere e di riposarsi. Anche se poi, dopo qualche intervista, aveva ritrattato leggermente la sua affermazione dicendo di volere aspettare fino alla fine dei Mondiali prima di sentenziare e decidere sul suo futuro, il quale adesso, a Mondiali finiti, pare che con il cinema debba ancora avere qualcosa a che fare.
E per fortuna, aggiungeremmo.

Perché - in totale controtendenza con la teoria tarantiniana - "Jimmy's Hall" non sembra affatto l'opera di un regista vicino agli apici della sua vecchiaia, come nemmeno quella di chi con la testa comincia a perdere pieno legame e quindi capacità di intendere e di volere. Tutt'altro. Loach infatti dimostra per l'ennesima volta di mantenere una lucidità e una giovinezza mentale che gli consentono insieme di non smarrire nemmeno un pezzettino della sua magnifica impronta autoriale e umana, mettendo in piedi una storia asciutta, impeccabile, forse piuttosto netta e sentita, ma che trascina, emoziona e commuove senza alcun bisogno di forzare la mano. Ci riporta nel lontanissimo 1932 - nell'Irlanda post-guerra civile e in piena depressione - per raccontarci lo spaccato di un uomo, Jimmy Graltron, che per spirito e gesta, potrebbe esser tranquillamente etichettabile come una di quelle leggende da idolatrare e venerare in eterno. Se non lui, quantomeno il suo rinomato salone (o centro sociale, se preferite), quello spazio in cui gli abitanti della Contea di Leitrim riescono a riempire i loro vuoti culturali e vitali, riunendosi felicemente per discutere, leggere, studiare, boxare e ballare. Svolgere insomma quelle attività ricreative e benefiche utili alla comunità, ma per niente ben viste dalla Chiesa e dalla borghesia, che giudicano l'eccessiva libertà di pensiero sprigionata in quel luogo come qualcosa di pericoloso e lontanissimo da Dio.

E su questo tema - che in qualche modo abbraccia l’essere liberi in senso assoluto - “Jimmy’s Hall” sente il bisogno di impostare la sua potenza impetuosa e viscerale, addentrandosi in un testa a testa tra uomo e religione che Loach porta avanti alla sua maniera, destreggiandosi tra personaggi privi di sfumatura e disegnati per essere identificati come buoni o come cattivi. Di conseguenza la battaglia intrapresa da Graltron contro la testardaggine dei poteri più ricchi è una di quelle battaglie che da parte dello spettatore può essere solo che condivisa e sostenuta, poiché combattuta contro quella parte intimidatoria e violenta di un regime autoritario e fascista, che non riesce a vedere oltre gli interessi di quello che è il suo piccolissimo orticello. Ma da questo Loach ha voglia di ricavare esclusivamente una favola ricca di speranza e di positività, un motore senza tempo, escludendo categoricamente quindi di rimanere impantanato nella parentesi Storica generale attinente all’Irlanda. E per cui sacrifica molto più di quanto forse abbia mai fatto, riducendo caratterizzazioni, sottotrame e romanticismi apparentemente importanti, solo per favorire a gran voce l'elemento più sacro e fondamentale della sua opera, quell'immortalità risiedente nella forza delle idee che trascende ogni persona e luogo per esistere sempre e ovunque.

Così, pur avendolo già immaginato e previsto per propensione, l'epilogo di "Jimmy's Hall" non può che essere ugualmente amato e abbracciato come fosse quello spiazzante e meraviglioso che non ti aspetti. La costruzione con cui Loach accende sapientemente la temperatura del suo finale, oltre a restituire a noi brividi e qualche lacrima, dimostra l'esperienza e la voglia di un veterano del cinema che dal cinema non può staccarsi per definizione.
Perlomeno non in maniera così netta o derivante dai Mondiali.

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