Gemma Bovery - La Recensione

Stanno cercando di farcelo capire in ogni modo: quando una Dea come Gemma Arterton si trasferisce, per sbaglio, in un paesino comunissimo (inglese o francese che sia), l'ordine e la calma fanno le valigie e vanno a rifugiarsi da qualche altra parte. Non allenati, evidentemente, a gestire lo scombussolamento di ormoni che una bellezza del genere può stimolare una volta apparsa.

Quanto fosse difficile resistere ad un fascino così divino e delicato, del resto, lo avevamo intuito già con Stephen Frears e il suo "Tamara Drewe: Tradimenti All'Inglese", pellicola che con questo "Gemma Bovery" porta in comune non solo l'incipit, ma anche la radice graphic novel da cui prende spunto, ideata sempre dalla matita della disegnatrice britannica Posy Simmonds. A fare la differenza tuttavia stavolta è la mano di Anne Fontaine che se da un lato sembra voler ricalcare le orme lasciate da Frears - ingaggiando nuovamente la Arterton in un ruolo molto vicino a quello già interpretato e rimanendo nei meandri della commedia - dall'altro spinge per avventurarsi in una narrazione tutta particolare e soggettiva, volta a mettere il personaggio di Fabrice Luchini, appassionato di Flaubert, sulle tracce della sua neo-vicina per verificare se davvero il cognome Bovery a lei appartenente abbia delle connessioni strettissime con la Madame del noto romanzo come lui sostiene. Questa intuizione cambia considerevolmente il procedere degli eventi, poiché piega l'intero contesto a non essere più riconoscibile come reale, ma probabile frutto dell'immaginazione del "paterno" stalker di Gemma, o, magari, una via di mezzo tra finzione e verità. Ovviamente, ciò, è quello che la Fontaine va cercando, e per alimentare i dubbi impedisce qualsiasi inserimento in sceneggiatura che possa fare uscire dalla bocca di Gemma - magari dialogando proprio con il personaggio di Luchini - l'ammissione dei suoi presunti peccati extraconiugali: lasciando così che la titubanza resti alla base e prenda ancor più corpo quel concetto, dichiarato a gran voce, della vita (che in questo diventa il cinema) che ama spesso imitare l'arte.

Punta molto sulla figura femminile, insomma, la pellicola, una figura spiata, immaginata e decisamente più approfondita delle altre maschili che gli ruotano intorno. Cerca di donarle una risoluzione inedita, di redimerla, ma per quanto la cosa possa essere tendenzialmente piacevole - specie per il parziale all-in in favore della Arterton - la mancanza di interesse e di spessore, nei confronti degli altri personaggi presenti - protagonisti e di contorno - a "Gemma Bovery" provoca tutt'altro che benessere, penalizzandone sensibilmente andatura e spirito. Partendo proprio da una frase detta dalla stessa Gemma nel film, dopo aver cominciato a leggere anche lei il libro di Flaubert: se in Madame Bovary non succede niente, ma il testo resta comunque interessante, nella pellicola della Fontaine succedono molte cose, senza però suscitare interesse. Colpa, probabilmente, della mancanza di una ferma impalcatura e dell'ostinazione di voler chiudere la storia assolvendo, così come condannando, ognuno dei suoi personaggi, evitando di prender posizioni e indebolendo il coinvolgimento come l'attrazione.

Se Gemma sia una donna infedele, una moglie in crisi o una via di mezzo tra le prime due ipotesi la Fontaine non ci consente di poterlo sapere. Di assodato nella sua opera c'è solo l'innata sensualità di una Arterton che - immaginazione o meno - ruba la scena persino alle frecciate comiche che, ogni tanto, francesi e inglesi si tirano a vicenda per riprendere fiato. Peccato che ciò non basti comunque per eliminare i difetti di un film che, nonostante una tematica conosciuta, avrebbe potuto utilizzare meglio le sue carte ed evitare di giocare un intera partita con solo una donna di cuori in mano.
Considerando, persino, il mazzo a disposizione sul tavolo.

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