Babadook - La Recensione

Un bambino di sei anni iperattivo e aggressivo con una madre fragile e disperata, incapace di chiudere i conti con un passato che ha visto portargli via il marito durante la corsa in macchina, verso l'ospedale, poco prima di partorire.
Sulla carta ogni cosa farebbe pensare a un drammone o ad un thriller, magari, eppure tramite un intuizione geniale, come anche leggermente forzata, "Babadook" porta con sé le caratteristiche migliori per diventare uno degli horror più interessanti visti negli ultimi anni sulla scena cinematografica.

Come facilmente intuibile il Babadook del titolo è una variante dell'uomo nero, un personaggio oscuro appartenente a un libro altrettanto misterioso, che una volta aperto e letto ad alta voce si insinua nelle vite dei malcapitati (bambini o adulti che siano), senza alcuna possibilità di salvezza. Ma la regista Jennifer Kent si serve di lui non tanto per spaventare gratuitamente, quanto per entrare a gamba tesa, e analizzare da vicino, un rapporto madre-figlio complicato e allo sbando, preparando senza fretta uno scontro faccia a faccia coi fantasmi del passato, inevitabile e da sempre rimandato. L'impronta horror a questo punto si fa imprescindibile ed elettrizzante, perché miscelata a una catarsi in crescita e a un'atmosfera gelante di malessere a cui è praticamente impensabile restare immuni, e che lentamente va a condizionare la tensione e l'approccio alla pellicola sia nella testa che nello stomaco dello spettatore.

E dalle paure notturne di un bambino - che di giorno è lui stesso paura per gli altri (a tratti sembra la versione aggiornata di Kevin McCallister) - una madre esausta e disperata si lascia gradualmente influenzare e suggestionare, al punto da diventare lei stessa complice dell'immaginazione del figlio, radunando quindi ogni insicurezza e scheletro e consentendo al fantomatico Babadook di materializzarsi nella sua mente così come sul (nostro) grande schermo. La metamorfosi dell'attrice Essie Davis si fa allora gigantesca quanto terrorizzante, affiancabile - senza rischio di esagerare - a quella celebre per antonomasia che Jack Nicholson ci aveva regalato nello "Shining" di Stanley Kubrick, al quale probabilmente per uno spaccato questo "Babadook" prova a fare il verso. Tuttavia, la Kent ha altri piani per la sua pellicola, originali e chiari, e mentre la pazzia dilaga sottoforma di possessione nel corpo e nella mente di una madre, l'amore incondizionato e corrisposto per il figlio instaura con essa una lotta all'ultimo grido per evitare il compiersi di una tragedia (visivamente) annunciata.

Perché in fondo "Babadook" un horror non è per niente (almeno non in origine), e se si maschera da tale è solamente per fortificare sé stesso e la sua messa in scena. Quella selezionata e voluta dalla Kent per esprimere al meglio l'oscurità di una donna incapace di andare avanti e di superare le proprie debolezze, una donna che non pensava di diventare madre senza marito, così come non credeva di poter arrivare a mettere in discussione l'affetto per il proprio figlio. Quell'affetto indiscutibilmente reale, presente in ogni madre che si rispetti e in grado di ribaltare persino l’egemonia del lato più oscuro che la terra abbia mai ospitato, dominandolo.

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