Belli e (im)Possibili: Camp X-Ray - La Recensione

Una giovane ragazza abbandona la sua piccola cittadina per arruolarsi nell'esercito americano e combinare qualcosa di importante. Anziché essere collocata in Iraq, come avrebbe voluto, viene spedita però nella prigione di Guantanamo, a fare la guardia a dei detenuti (e non prigionieri, sia chiaro) musulmani sospettati di aver collaborato o preso parte diretta all'attentato dell'Undici Settembre. Scaricata nel nulla e circondata da soldati uomini con cui spartire ben poco, i suoi rapporti andranno a legarsi gradualmente ad uno dei reclusi presenti in cella che, a suo modo, gli rivendica il ripristino dei suoi diritti assieme alla sua innocenza.

C'è un incipit piuttosto prevedibile e di scarso incoraggiamento ad accompagnare il "Camp X-Ray" dell'esordiente alla regia Peter Sattler. Uno di quelli, per intenderci, in cui prevedere il risvolto è ormai processo istintivo, quasi matematico, decifrabile in un batter d'occhio riducendo le possibilità a due semplici risultati: il primo a sfondo patriottico dove vien suggerito di diffidare sempre del proprio nemico e il secondo, esatto opposto del primo, che insegna a non dover fare per forza di tutta l'erba un fascio.
E da una parte, in effetti, è esattamente così, senza girarci troppo intorno, non c'è alcuna sorpresa riguardo alle sorti di una pellicola che tuttavia non ha alcuna intenzione di rendere il suo epilogo elemento di distinzione, né tantomeno gloriosa virtù. A Sattler (autore anche della sceneggiatura) infatti preme tutto ciò che viene prima, quel conflitto psicologico scatenato nella testa del personaggio di Kristen Stuart (convincente e riabilitata alla recitazione) quando il detenuto di Peyman Moaadi comincia ad entrargli in testa e a trovare terreno fertile per ognuna delle sue lamentele, questioni morali e giudizi. Parole che martellando a ripetizione finiscono per sfondare quel muro mai fatto di marmo, sorretto dalla giovane, rimettendo in discussione lei stessa, la sua decisione e i metodi esercitati dal suo paese per ottenere informazioni e collaborazione. Un processo che, sebbene anch'esso prevedibile, è costretto a fare i conti con quel senso del sospetto diventato oggi seme abitante nella coscienza di ognuno di noi.

Ed è sotto questo aspetto che "Camp X-Ray" trova il varco che voleva, nell'innescare dentro lo spettatore quel timore che l'apertura della giovane protagonista nei confronti del prigioniero sia in realtà una manipolazione, qualcosa in cui credere solo apparentemente e con cui vivere costantemente all'erta. Più dell'America, più dei nemici e dell'erba e i suoi fasci, quindi Sattler scava dentro le anime di noi spettatori, non dovendo neppure faticare per arrivare tanto a fondo, scovando limpida quella paura e quella diffidenza verso il prossimo che senza dubbio gli eventi successi negli ultimi anni hanno contribuito ad ampliare e innescare.
A questo punto scoprire se il prigioniero chiuso in cella sia innocente o colpevole non conta più nulla, poiché come dice la pellicola stessa, in uno dei suoi buonissimi dialoghi: <se il tuo paese è in guerra con lui,  allora lo sei anche tu>. E nella scena più difficile e drammatica posizionata nel pre-finale ci accorgiamo quanto nonostante le inconfutabili prove, quella tranquillità solare che una volta ci invitava a fidarci dell'altro, sia diventata un vago ricordo, riposto lontano, in territori remoti.

Tutti i discorsi sulla possibilità che Sattler poteva aver scommesso su un'opera prima sciatta e di poco interesse, dunque, sfumano come l'umanità scambiata tra paesi in guerra e il suo "Camp X-Ray" si impone sullo spettatore con carisma e decisione, tenendolo incollato allo schermo dal primo all'ultimo istante. Un' esordio quantomai incoraggiante a cui speriamo venga dato simile seguito.

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