La Mia Famiglia A Taipei - La Recensione

La Mia Famiglia A Taipei Poster

Il nome di Sean Baker che appare come un pesce fuor d'acqua in mezzo ai titoli di testa - prevalentemente orientali - di "La Mia Famiglia A Taipei" - titolo che, tanto per cambiare, sovrasta e tradisce quello originale e più centrato di "Left Handed Girl" - è, in realtà, più incisivo di quanto si pensi. Il suo apporto, infatti, nella pellicola co-scritta e diretta da Shih-Ching Tsou lo vede figurare, oltre che come produttore, anche in veste di co-sceneggiatore e montatore.
In pratica, un padre a tutti gli effetti.

Che poi è quello che manca alla famiglia del titolo, la quale torna a Taipei - città Natale - dopo qualche anno passato altrove, ritrovando le proprie radici e il proprio passato, ma pure un sacco di problemi (irrisolti). Madre, figlia e figlioletta (vera protagonista) intenzionati a ricominciare, a (ri)mettersi in gioco, a sistemare un debito molto grosso, destinato ad aumentare ulteriormente: colpa di un padre e di un marito, come dicevamo, che ha causato molti dolori, ma che ora sta per morire (in solitudine) e sarebbe orribile non pagargli pure i funerali. Per ripianare l'instabilità finanziaria madre e figlia maggiore, allora, decidono di rimboccarsi le maniche, la prima aprendo un chiosco di noodles in strada, la seconda (ribellandosi all'idea e) lavorando come commessa in un negozio nei paraggi, barcamenandosi a turno per non perdere di vista la piccola I-Jing che, invece, se la spassa oscillando tra viaggi spericolati in motorino con la sorella e passeggiate spensierate tra i banchi che arricchiscono l'affollato mercato in cui lavora sua madre. Questo, almeno, finché il nonno non la vede mangiare a tavola con la sinistra, rimproverandola e suggestionando i suoi pensieri con la diceria che quella è la mano del diavolo e chi la usa tende a compiere malefatte.

La Mia Famiglia A Taipei Film

L'ombra di "Un Sogno Chiamato Florida" (ma pure di "Tangerine") è dietro l'angolo, insomma, e chiunque abbia avuto un minimo di confidenza con il cinema di Baker, non faticherà a intravederne i contorni, le suggestioni (le follie). Però, va detto, che "La Mia Famiglia A Taipei" sfugge abilmente al ricalco, cercando di distinguersi e sfruttando al meglio le potenzialità offerte da un contesto culturale diametralmente differente. Tradizioni, superstizioni, tabù, sono spunti che, in qualche modo, influenzano e indirizzano una storia fatta di madri e di figlie, di generazioni a confronto, di ferite e di incomprensioni che si trascinano, rischiando di alimentare un pericolosissimo circolo vizioso. Passati ingombranti, che non si accontentano di aver già compromesso il presente e che puntano a conquistare un futuro che rischia così di ereditare stupide maledizioni. Temi universali, in fondo, perché per quanto speziati e dislocati in terra (e strada) straniera, convogliano inevitabilmente nei classici conflitti famigliari, nella mancata assunzione di responsabilità e (presunti) scandali privati, nascosti sotto un tappeto le cui dimensioni, però, rischiano di deficitare: creando caos nel momento meno opportuno (ma più elettrizzante) e provocando più danni di quanti ce ne sarebbero stati se confessati e gestiti (e quindi esorcizzati) nell'immediato.

Per fortuna che a sdrammatizzare e ad alleggerire la tensione (si fa per dire) c'è il dolcissimo faccino - che è una costante - di I-Jing, la quale - ci dice Shih-Ching Tsou, rassicurandoci - sembra assorbire con grande elasticità mentale la virtuale valanga che le cade addosso, trasformandosi nel punto fermo (da salvare e) da cui un'intera famiglia può finalmente ripartire. Magari, svincolandosi stavolta da false credenze, sensi di colpa e limiti obsoleti.

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