Southpaw: L'Ultima Sfida - La Recensione

Cresce a dismisura Jake Gyllenhaal, da "Lo Sciacallo: Nightcrawler" il suo peso scenico è aumentato a dismisura, ha imparato a prendersi la scena, a possederla e per la seconda volta consecutiva diventa lui stesso il faro unico del film di cui è protagonista. Peccato che gli stessi progressi, avvenuti con la stessa velocità, non siano capitati ad Antoine Fuqua, che pur girando bene e ostentando equilibrio maggiore, non scavalca totalmente le trappole di una sceneggiatura (scritta da Kurt Sutter) colma di mescolanze, a tratti zuccherosa ed eccessivamente positiva.

Già, perché "Southpaw: L'Ultima Sfida" è, niente più e niente meno, ciò che, andando a ritroso, il cinema ha proposto e riproposto nel corso del tempo. Un viaggio all'inferno e ritorno, una storia di rabbia, di dolore, con un campione di boxe orfano, cresciuto in un istituto, che manda all'aria il suo successo e la sua famiglia per via della furia incontrollabile che lo contraddistingue: asso nella manica per vincere gli incontri, ma colpevole di avergli portato via accidentalmente, in modo definitivo, la moglie e temporaneamente la figlia. Un underdog della società, fortunato per essere sfuggito al suo destino, ma con la testa impreparata a maneggiare con cura gli alti e bassi inviati senza preavviso dalla vita. Materiale vecchio come il mondo, insomma, che Fuqua prova a rinvigorire con una regia muscolosa e indiscreta, attaccata il più possibile al corpo e alla faccia perennemente martoriati del Billy "The Great" Hope, interpretato da Gyllenhaal e capace di diventare anche penetrante quando sceglie di dilatare in primi e primissimi piani le (numerose) emozioni drammatiche (espresse o meno) insistentemente convocate in scena.
Apparentemente una ordinaria amministrazione, un progetto calcolato e pilotato da chi, nel suo piccolo sa come cavarsela e spuntarla, ma in cui tuttavia non mancano quelle stonature eccedenti, rappresentate da parentesi stucchevoli o trascurabili, dove retorica e facilonerie prendono il sopravvento irritando sia la tensione che l'occhio.

Pecche generate da un copione di cui Fuqua non è responsabile in prima persona, ma da cui, con un minimo di accortezza in più, avrebbe potuto tirar fuori il meglio agendo d'istinto e d'esperienza: staccando perciò, a tempo debito, la macchina da presa laddove non c'era alcun bisogno di indugiare e magari - se proprio non era possibile accorciare la durata complessiva - lasciarla accesa più a lungo nelle circostanze più intime, poco importa se dedicate ancora a Gyllenhaal o al personaggio, ampliabile, di Whitaker.
Così di "Southpaw: L'Ultima Sfida" intravediamo come migliori le potenzialità non perseguite, quelle legate a un privato che sullo schermo è meno palese ed elaborato, un privato che poteva andare ad avvinghiarsi persino col passato, con la formazione di quel pugile selvaggio ed impacciato, ma fondamentalmente buono.

Pagine che un regista di livello non si sarebbe fatto scappare, che in qualche modo avrebbe utilizzato a proprio favore pur di non finalizzare un prodotto privo di cose da dire. Ma a quanto pare Fuqua per prendere parte a questa categoria non è ancora pronto: il suo resta un cinema esteticamente efficace, sporco, irruento, ma carente sotto l'aspetto della costanza e della potenza.
Il che fa media.

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