La Legge Del Mercato - La Recensione

Di leggi, il mercato del lavoro, ne ha conservate ben poche, da quando la crisi economica gli ha consentito di reagire al collasso, piegando diritti e doveri pur di non cedere terreno e conservare una sua identità. La conseguenza - lo sappiamo - è stato lo stravolgimento comune scatenato verso chi quel mercato lo vive e lo abita, chiamato a rinegoziare sé stesso, le sue garanzie e le prospettive di un sostentamento (tralasciamo il benessere) non più raggiungibile attraverso il solo l'impegno ed il volere.

Ma che le leggi cambino o - per dirla meglio - si aggirino, non è certo una novità, per cui secondo il regista francese Stéphane Brizé, tanto vale sorvolare qualsiasi discorso riguardante l'ambiente e concentrare ogni sforzo sulla reazione del soggetto, a cui è richiesto il compito di adattarsi velocemente ai mutamenti, curvando la schiena e facendo buon viso a cattivo gioco: in palio la sopravvivenza in quella giungla stracolma di rapaci che non vedono l'ora di mangiarsi, o bersi il sangue, di una preda qualsiasi. Il suo "La Legge Del Mercato", perciò, somiglia quasi a un documentario, anzi, l'intenzione era proprio quella di mettere il protagonista Vincent Lindon all'interno di una finzione vera il più possibile, ingaggiando un cast di contorno composto principalmente da attori non professionisti - la maggior parte impegnati davvero nel ruolo affidatogli nel film -  che potessero dare quella percezione pulita e sincera del mondo che si voleva inquadrare e raccontare. La macchina da presa allora rimane principalmente puntata su Lindon, andando a catturare espressioni e reazioni di un uomo che a cinquant'anni, perduto il posto di lavoro, ha deciso di rimboccarsi le maniche e non sopperire di fronte a un mercato che lo respinge e a dei comportamenti e mancanze di rispetto che punterebbero a svilire e a stancare persino le motivazioni del disoccupato più giovane e in erba situato su piazza.

Sceglie la via dell'implosione Brizé per mettere in scena la sua storia. Non ci pensa minimamente ad usare il trucco della deflagrazione e lascia che preoccupazioni e malesseri del suo protagonista traspirino in automatico, senza il bisogno di andarli a forzare con meccanismi scenici retorici o tantomeno artificiali. Non vuole perdere quel tocco di verosimiglianza ricercato ed efficiente, per cui prova ad essere meno invasivo possibile e lasciare che a riempire lo schermo sia esclusivamente la capacità attoriale incredibile di un Lindon misurato e bravissimo a lavorare in sottrazione. Quando l'obiettivo lo inquadra la vita del suo Thierry si accende e scorre in quel mare di disavventure in cui implacabile lotta per difendersi e per mantenere intatta una dignità che, attaccata regolarmente, non intende ridimensionare neppure sotto gli effetti più gravi della difficoltà familiare. Ma in quel mare, tuttavia, non basta nuotare ininterrottamente, come non basta neppure avere integrità e buon senso per capire quando è il turno di fare un passo indietro o addirittura cambiare fila, perché per sopravvivere nelle acque sporche del mercato di oggi, per sottostare alle sue leggi, servono fegato e denti, quei denti aguzzi con cui gli squali puro sangue seguitano a prosperare e a nutrirsi e, invece, i pesci piccoli che provano a simularli, presto o tardi, finiscono per sopperire, o sotto le loro grinfie o sotto quelle della stanchezza.

Thierry in questo mare nonostante abbia imparato bene a cavarsela per via di un fegato da fare invidia, non ce la fa più a nuotare. E' saturo di essere il pesce piccolo condizionato a guardarsi le spalle o condizionato a vedere le facce dei suoi simili divorati dalla fame chimica di chi non è mai pago. Thierry vorrebbe che qualcuno intervenisse, vorrebbe che l'ordine che c'era una volta venisse ripristinato, vorrebbe giustizia, che poi sarebbe umanità, ma purtroppo la sua voce è come quella della maggioranza: troppo insignificante per poter fare la differenza.
E quindi l'unica speranza è che Brizé ed il suo film abbiano sorte migliore.

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