Suffragette - La Recensione

Qualche volta, nei compiti in classe di Storia, tra le varie pagine che c'erano da studiare, erano presenti alcuni paragrafi che solo leggendo il titolo decidevi di saltare a piè pari, o magari di guardare velocemente, con sufficienza: questo perché il loro contenuto era talmente conosciuto e reiterato nella Storia stessa che, per velocizzare la pratica potevi permetterti di snobbarlo, dandolo praticamente per scontato.

Ecco, "Suffragette" potrebbe essere considerato esattamente quel genere di paragrafo, quello che racconta, in sostanza, che per raggiungere il diritto di voto, di uguaglianza e di libertà, le donne della Gran Bretagna del 1912, dovettero mettere da parte le buone maniere e protestare utilizzando l'arma faticosa della violenza, quella che appunto, la Storia insegna, è stata complice dei maggiori successi e delle migliori rivoluzioni che l'uomo ricordi. Un concetto alquanto striminzito, insomma, del quale a grandi linee tutti siamo al corrente, spiegato con la superficialità di chi ha intenzione di non dimenticare, ricordare, ma non di approfondire. Perché nella pellicola scolastica e infinitamente piatta della regista Sarah Gavron di cose da dire, che potevano trasformare quel paragrafo sorvolabile in un capitolo cruciale, ce ne erano eccome, cose assai più importanti delle sottolineature perpetue sulla figura della donna simile alla serva che, per carità, era giusto evidenziare, ma non con così ampia insistenza. Di fronte all'opportunità di un focus del genere, infatti, oltre al bisogno, c'era quasi l'obbligo di dover osare di più, di concentrarsi sulle motivazioni, sui pensieri, su quel simbolo, rilegato a comparsa, dell'attivista politica Emmeline Pankhurst (alias Meryl Streep), che spinse delle povere donne operaie, sottomesse e impaurite a trasformarsi in soldatesse toste e agguerrite, disposte a rischiare famiglia, carcere e morte pur di rovesciare un sistema che, all'improvviso, capivano esser per loro stretto e ingiusto.

Queste cose "Suffragette" sul piatto ce le mette, però ce le mette come fossero una portata di contorno, un supplemento con cui andare ad irrobustire una trama il cui cardine è rappresentato dal percorso emotivo e drammatico del personaggio di Carey Mulligan: madre, donna e lavoratrice obbediente per definizione, che senza rendersene conto si ritrova a combattere con tutta sé stessa per una causa di cui, in principio, doveva essere solo mera spettatrice. Sono il suo coraggio nascosto e le sue decisioni amarissime a colorare la scena, quel balzo illuminante con il quale, lei stessa, scopre di avere un carattere da leader, mai sperimentato, che la porta a scalare rapidamente la coda della fila dove si era posizionata, raggiungendo la testa pensante del movimento ribelle e proclamandosi tacitamente una dei massimi esponenti e riferimento insostituibile delle suffragette. Evoluzione di personalità che tuttavia la Gavron sceglie di inquadrare sempre da una certa distanza, per non perdere mai quella canonicità di fondo che nella sua pellicola è parola d'ordine come anche fianco scoperto, il freno a mano tirato che gli impedisce di sviluppare quel fuoco viscerale di cui aveva senz'altro bisogno e con il quale poteva andare a marchiare laddove, al contrario, non lascia il minimo segno.

Ci si accontenta, dunque, di un lavoro documentale, di esporre i fatti per far si che questi vengano rinfrescati o comunicati a chi, assente non giustificato, si era perso l'ultima lezione scolastica. Dell'epicità della causa, della costruzione e del travaglio di chi ne è stato parte attiva c'è poco e niente, e probabilmente questa è l'origine determinante che porta "Suffragette" ad essere identificato allo stesso modo di quel paragrafo sorvolabile, contenuto nel libro, di cui sappiamo già per filo e per segno i pochi punti interessanti da tenere a mente. E che di rileggere, proprio, faremmo volentieri a meno.

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