Love And Mercy - La Recensione

Non brilla certo per modalità di messa in scena "Love And Mercy", il biopic sul genio della musica Brian Wilson, riconosciuto troppo tardi, probabilmente, come tale, e creatore, mente e voce di quei Beach Boys approdati sulla scena musicale agli inizi degli anni '60 con un successo immediato. Quella diretta da Bill Pohlad e scritta da Oren Moverman infatti è una pellicola piuttosto tradizionale nella sua struttura, dove l'unico elemento di rottura - se così vogliamo chiamarlo - è rappresentato dai due piani temporali in cui Paul Dano e John Cusack si dividono passato e futuro raccontando in parallelo il Wilson, più giovane, di inizio successo, e quello imbottito di farmaci e manipolato, appartenente al periodo degli anni '90.

Discorso, tuttavia, che di fronte alla figura controversa, intricata, eppure magnifica e straripante di Wilson, perde qualunque tipo di rilevanza, scendendo in secondo piano e lasciando il posto alle performance di un fenomeno musicale a cui bastava isolarsi temporaneamente dal mondo ordinario per tirar fuori dalla testa una melodia rivoluzionaria, da andare a spiegare, in seconda battuta, a musicisti esperti che, puntualmente, rimanevano esterrefatti dal risultato finale e da quello che, per forza, doveva essere considerato un estro straordinario e fuori dal comune. Stessi aggettivi che potremmo utilizzare, nostro malgrado, per andare a descrivere quella che poi è stata la vita che lo ha investito, una vita che nonostante le droghe e le sregolatezze, non è affatto paragonabile a quella che spesso tocca alle rock-star di successo, poiché, in questo frangente, le fragilità, la paranoia e le facili incomprensioni, nascono da un passato più che remoto, da associare a una famiglia, o più precisamente ad un padre, dal carattere autoritario, violento e severo. Fu lui a stimolare, a schiaffi in faccia, il figlio, a fare in modo che i Beach Boys - all'interno dei quali erano presenti anche i fratelli e il cugino di Wilson - prendessero forma, ad esser decisivo, forse, nell'affinamento delle sue capacità, a trasmettere la sacralità delle radici e a vincolare, di fatto, artisticamente, e nel momento più sperimentale della sua carriera, l'anarchia di Brian, sempre più orientata a spingersi oltre, verso canali poco comprensibili ai comuni mortali (altri membri della band compresi).

La staffetta tra Dano e Cusack allora serve a Pohlad per completare il puzzle, per delineare chi era in principio Wilson, di cosa fosse capace all'apice della sua (non) lucidità e quali fatti furono responsabili della sua caduta verso il periodo più buio: quello che lo spinse tra le mani maledette del Dottor Eugene Landy e che senza l'aiuto della, in seguito futura seconda moglie, Melinda, avrebbe potuto concludersi con il peggiore degli epiloghi. Un lavoro orientato, dunque, ad assumere grossezza e calibro non tanto per competenze e maestria di chi lo ha preso in spalla, quanto per i riferimenti musicali, gli aneddoti (la creazione di Pet Sounds, disco riconosciuto come tra i più influenti della musica pop) e la Storia allucinante, vera, posta al centro che - a prescindere dall'appassionato o dal semplice spettatore curioso - lascia di sasso, prendendo in mano le redini e catturando l'attenzione, alleggerendo pertanto ogni sospetto sulla possibile e generosa dose di enfatizzazione impiegata.

Quella tradizionalità denunciata prima, perciò, percepita un po' come requisito penalizzante nell'economia di una biografia per la quale si pretendeva, giustamente, il massimo, diventa quindi la strada più corta per rendere fruibile, nel senso più assoluto del termine, il tributo ad un artista fondamentale, capito e apprezzato per nostra colpa largamente fuori tempo, e di cui, esistenza a parte, sarebbe essenziale recuperare le opere.

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