Julieta - La Recensione

Da Alice Munro e dai suoi racconti, Pedro Almodovar ha preso solo ciò che più si avvicinava alle sue corde, dribblando quindi qualunque rischio di arricchimento o, per dirla diversamente, di snaturalizzazione.

Quello di "Julieta" è un Almodovar autentico infatti che, come gli artisti coi propri quadri, nei titoli di testa ormai si firma senza il bisogno di mettere il nome, e nella sua tela inserisce - per farsi riconoscere a colpo d'occhio - i tratti distintivi di una poetica che non può fare a meno della drammaticità estrema, del racconto a ritroso, degli amori passionali, dei sensi di colpa, delle fragilità umane e delle relazioni omosessuali (in questo caso ridotte all'osso e accennate di sfuggita). Torna a ricalpestare quindi i territori che più gli appartengono, il regista, con una storia al femminile, stesa su due piani temporali, in cui la Julieta del titolo, scrivendo un libro, decide di rivolgersi alla figlia scomparsa da anni e fuggita chissà dove, confessandole i dettagli di un passato familiare travagliato e irrisolto, cruciale per entrambe e responsabile dei profondi lividi e delle ferite che ancora, con dolore, tutt'e due conservano dentro. Già, lividi e ferite, due aspetti fondamentali a cui la pellicola vuole dare ampio risalto, simboleggiandoli attraverso due colori primari come il blu ed il rosso, che in coppia, cambiando magari ogni volta posto e modalità di esposizione, non abbandonano praticamente mai la scena, alterandola sia nello spirito che nell'assimilazione. Colpo di classe, inserito forse sottotraccia, con il quale Almodovar va a lavorare sull'estetica e sulle atmosfere, ponendo l'accento sul conflitto interiore che gli sta a cuore e mantenendo acceso il melodramma persino laddove il dialogo o l'azione si fermano o sono assenti.

E in effetti non è nei silenzi che "Julieta" mostra i suoi più grandi difetti, come nemmeno in quella sua parentesi di passione e di carne, nella quale, probabilmente, il regista spagnolo riesce a dare il meglio di sé, sia per immagini che per esaltazione di corpi, femminili come maschili. Sono i dialoghi, in realtà, a non funzionare, a creare i disagi, accompagnati il più delle volte da una messa in scena finta e stonata, con la quale si rischia di sconfinare - in termini di attendibilità e di enfasi - in quel palcoscenico di fiction televisive nostrane, in cui la qualità è secondaria e la credibilità pure (la scena in cui viene fatta una rivelazione traumatica alla piccola Antia è sconcertante e lo stesso vale per la reazione che, poco dopo, mette in mostra durante una partita a basket con la sua migliore amica). Un crollo che, costante, si fa largo durante tutta la seconda parte della pellicola, dove una dilatazione programmata e il dover virare verso una deriva strappalacrime, viscerale e, sulla carta, deflagrante portano la stessa a naufragare in alto mare e a sbattere sugli scogli: imbarcando acqua più del previsto e perdendo quindi quella rotta non eccezionale, ma gradevole, a cui comunque prima, per una buona parte, ci aveva lasciati abituare. L'emotività, anziché detonare o salire in superficie, allora, ne risente e affonda, disperdendosi trascinata dalla corrente e allontanandosi inesorabilmente, onda dopo onda, dalla base: lasciando noi spettatori impassibili, stanchi e più interessati ai titoli di coda che al resto.

E pensare che era partito con un viaggio Almodovar, con le citazioni di Ulisse e Calipso e riferimenti sparsi alla mitologia greca. Voleva riaffermare il suo cinema, il suo essere, portandosi da casa il bagaglio integrale degli attrezzi per riuscire nell'operazione senza incontrare intoppi. La sensazione, però, è che da qualche tempo la sua vena artistica si sia un tantino spenta, o che forse sia attiva a intermittenza, sta di fatto che ciò non è sufficiente per giudicare compiuta o passabile un'opera svogliata, scarica e a tratti addirittura involontariamente ridicola come "Julieta", che tra l'altro, poi, nulla va ad aggiungere o togliere alla sua, apprezzabile o meno, rinomata filmografia.

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