La Canzone Del Mare - La Recensione

Trae spunto dalla mitologia del suo paese il regista Tomm Moore per il suo secondo lungometraggio d'animazione, da quell'Irlanda che gli appartiene e in cui risiede la leggenda di creature magiche capaci di trasformarsi da foche a donne (non uomini, attenzione), semplicemente passando dalle acque del mare alla terraferma.

Si chiamano Selkie, tecnicamente, e in "La Canzone Del Mare" una di esse pare stabilmente essersi allontanata dagli abissi e aver messo su famiglia con marito, figlioletto e una bambina che, a breve, nascerà per aggiungersi al quadretto. Tuttavia, il posto naturale delle Selkie, è principalmente il mare, luogo in cui, prima o poi, sono costrette a tornare e a rimanere; e quando questo avviene, proprio in concomitanza con la venuta alla luce del pargolo portato in grembo, per il figlioletto maggiore, estraneo ai poteri (e alle origini) della madre, è un colpo talmente duro che, in automatico, va a riversarsi sulla piccola sorellina, per la quale riesce a provare nient'altro che odio e rabbia profonda.
Racconta quindi di una famiglia disarmonica, Moore, di un padre ferito e triste per la perdita del suo amore, e della figlioletta, leggermente cresciuta, ma ancora incapace di parlare, che vorrebbe instaurare un rapporto d'affetto con il fratello maggiore che però continua a tenerla a distanza, comportandosi da prepotente. Atteggiamenti dettati da emozioni conflittuali in circolo, che a volte, piuttosto che interrogare e sciogliere, a noi umani ci rimane più agevole assecondare, permettendogli di affogarci e cambiarci. "La Canzone Del Mare" ha la grande idea allora di manovrare tale flusso attraverso l'uso della magia, ingrediente basilare per i suoi connotati e determinante a dare il via alle peripezie che travolgono i due fratelli protagonisti. Sarà infatti il potere che la sorella più piccola ha ereditato dalla madre a scuotere la pessima condizione generale e a trascinare con sé il suo fratellone (e il loro cane) in un mondo nascosto e segreto, diviso anch'esso tra mare e superficie e nel quale doversi guardare dalle minacce di una strega che ha il potere di trasformare folletti ed esseri umani in statue di pietra completamente immobili o quasi, agevolandogli - stando al suo punto di vista - lo stare al mondo tramite la cementazione delle varie emozioni, spesso, auto-distruttrici e destabilizzanti.

Una metafora neppure troppo contorta sulla freddezza scelta come scudo di protezione, come antidoto a quei dispiaceri immancabili che nell'arco di un esistenza possono colpire più o meno duro, scalfendo, così come atterrando spietatamente.‎ Forma di riparo che Moore ha conosciuto, forse, e di cui vorrebbe dissacrarne ogni pregio, prendendola a martellate con lo scalpello e riverniciandola con l'umore giocondo, percepibile già dalle tinte colorate della sua tela. E in effetti somiglia proprio ad un dipinto la scena della sua pellicola, con paesaggi in acquerello meravigliosi, posizionati per fungere da sfondo e da ambiente ai protagonisti in movimento. Ogni inquadratura, panoramica, o stacco, in questo modo, diventa un piacere per gli occhi duplicato e atipico, una mostra d'arte subliminale dove, magari, si finisce per distarsi un attimino, salvo poi far mente locale e tornare concentrati sulle sorti della trama e le sue evoluzioni. Da questo punto di vista "La Canzone Del Mare" spicca e si allontana dalle classiche rappresentazioni dell'animazione digitale moderna, dribblando qualunque comparazione tecnica ed estetica con la concorrenza e andando a mettere in piedi un'anima svincolata e non conforme, per certi versi piccolissima, eppure grande quanto basta per farsi vedere e sentire.

Quel non voler strafare, immergendosi, al massimo, fino all'altezza delle ginocchia, quindi, premia, alla fine, il lavoro di Moore, frenandolo dall'eventuale strafare troppo e permettendogli di godersi il piacere di una nuotata spensierata e graziosa. Di tempo per andare al largo tanto ce n'è, così come c'è tempo per avvicinarsi all'età adulta e smettere di credere nelle favole e nelle leggende. Ammesso che di perdere tutta questa fanciullezza e tutta questa tenerezza, poi, ne valga davvero la pena.

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