The Conjuring: Il Caso Enfield - La Recensione

Prima o poi doveva accadere. Prima o poi James Wan doveva sentirla quella vocina nella testa ripetere insistentemente di provarci, di realizzare il suo capolavoro, quell'horror da copertina con cui tutti quanti lo avrebbero identificato e distinto, e con il quale poter guardare dritto negli occhi il capostipite di suo riferimento, ricavandone una versione aggiornata, più spaventosa che mai, da regalare alle nuove generazioni.

E occasione migliore di "The Conjuring: Il Caso Enfield" non c'era, probabilmente, per tentare di concepire un lavoro che andasse a ripercorrere lo sconvolgimento, la tensione ed il terrore de "L'Esorcista", ‎tramite una storia - quella di una famiglia britannica di umili origini (e senza capofamiglia) perseguitata da un demone che prende in ostaggio il corpo di una bambina - che moltissimo ha in comune e cerca di avere, anche, con il lavoro diretto da William Friedkin quarantatré anni fa. Il sequel dedicato ai coniugi Warren appare infatti come un esame di maturità, il banco di prova definitivo di uno degli alunni migliori della classe, che ha intenzione, ora, di laurearsi per cominciare, magari, a fare proprio il professore o semplicemente alta carriera. E nell'esposizione della sua tesi, nella padronanza ormai nota della macchina da presa, nella capacità di saper inventare ogni volta parentesi fresche di agghiacciante portata (la suora del film ne è testimonianza), Wan da a tutti l'impressione di poter essere in grado di gestire questo salto, di essere a suo modo maestro, autore di un marchio registrato in grado di dare ottimi frutti e garanzie. E, fino a prova contraria, lo spettacolo offerto dalla sua pellicola funziona, supera gli ostacoli e le scivolate del caso e si incanala verso uno standard decisamente sopra la media, con una storia d'esorcismo che viaggia in crescendo, lascia col fiato sospeso in più di un frangente e concede salti sulla poltrona prevedibili, ma puntualmente manovrati affinché non depotenzino il loro impatto e la loro portata.
Tutto secondo i piani, dunque, tutto rigorosamente impostato e studiato a puntino. Eppure qualche nota stonata, sebbene per udirla serva orecchio, a "The Conjuring: Il Caso Enfield" non manca affatto.

Riguarda la posizione di comodità di Wan e il suo adagiarsi e crogiolarsi nei giochi di prestigio da mestierante. Metodologia che, pur non danneggiando gli effetti sul brivido e sull'ansia, somiglia ad una scorciatoia troppo facile, che in qualche modo fa da schermo a quella maturità registica ricercata e di cui speravamo davvero di trovare traccia. Perché le carte per affacciarsi come il nuovo "L'Esorcista", le carte per diventare cult, insomma le carte per spiccare, questo sequel di "The Conjuring", ce le aveva, eccome, insieme a delle trovate azzeccate con le quali poteva persino andarsi a distinguere, non passando da copia sbiadita o da fratellastro da quattro soldi. Solo che se si voleva puntare a quello di obiettivo, allora, bisognava mettersi in condizioni più rischiose, osare, rinunciando al gioco di rimessa e proponendo uno stile non del tutto snaturato, ma perlomeno arricchito e rifinito. Invece la mano di Wan è praticamente uguale e identica a come ce la ricordavamo, immutata (gioca con la musica in sottofondo e con le apparizioni alla "ora non c'è, ora c'è"), al punto da confondere, in certi punti, il brand in questione con quello di "Insidious", confermando in questo modo per l'ennesima volta il suo estro, però al medesimo livello e con lo stesso punteggio (punto sopra o punto sotto) che gli era stato attribuito in passato.

Quindi, seppure il regista ne esca sempre a testa alta, al riparo da graffi e da lividi, la sensazione che possa aver perduto un treno importante, almeno secondo il sottoscritto, è ampia. Aveva veramente la possibilità di riuscire a realizzare la sua opera migliore, Wan, quella con la quale tutti noi saremmo stati pronti a consacrarlo e a promuoverlo come cineasta di riferimento per le nuove generazioni appassionate di horror. Ma, forse, le cose stanno diversamente, forse quella laurea che cercava l'aveva già presa, forse era un punteggio più alto a mancargli, o forse la lode, chissà. Una lode che tuttavia, non ce ne voglia male, tenendo conto dei nulli passi avanti compiuti, ancora non pare appartenergli legittimamente.

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