The Legend Of Tarzan - La Recensione

David Yates è un impiegato. Questo l’avevamo già detto, in passato, ma è bene ribadirlo. Essere impiegato e fare il regista significa letteralmente svolgere un preciso compito dietro la macchina da presa non avendo alcuna autorizzazione a fare di testa propria o a sperimentare; rassicurando, di conseguenza, lo Studio che ti commissiona il lavoro che questo venga portato a termine secondo un determinato piano di produzione, estraneo a qualsiasi discussione o confronto (uno Yes-Man, in pratica).

Certo, questa etichetta deriva, in gran parte, da quanto visto nella saga di Harry Potter (della quale il regista ha diretto tutta la seconda metà), dove i paletti erano sicuramente maggiori per Yates, e per lui si trattava della prima, vera, grande esperienza cinematografica: per cui quel carisma che a noi era sembrato totalmente assente, non è detto che non potesse esistere riposto, chi lo sa, magari in qualche cassetto, in attesa di essere tirato fuori e utilizzato al momento giusto. Ecco allora come “The Legend Of Tarzan”, in qualche modo, diventava un crocevia fondamentale, l’occasione perfetta, sia per Yates, sia per noi di rivalutare o meno la questione, andando a comprendere i suoi eventuali limiti e le sue qualità attraverso una storia che prometteva, sin dall’inizio, di voler tradire il romanzo di partenza, prendendosi delle libertà e riscrivendo l’epopea. Comincia infatti con un Tarzan già civilizzato e introdotto nei palazzi borghesi di Londra, la pellicola, con la parentesi della giungla ormai messa alle spalle (e rinnegata) e il rapporto con Jane legittimato nel sacro vincolo del matrimonio. Ciò che viene raccontato, quindi, è praticamente un ritorno alle origini, un riprendere contatto con quel luogo selvaggio in cui si è vissuti e cresciuti e nel quale, forse, si è lasciato qualche discorsetto (sentimentale e privato) in sospeso: sollecitato, qui, dalla scusante di una mossa politica da scatenare contro il monarca belga, Re Leopoldo II, che tramite un suo uomo mandato appositamente sul posto (in Congo), sembra stia per mettere in piedi un traffico di schiavi che dovrebbe ridurre i debiti contratti dalla sua Nazione ed arricchirla in breve tempo con il commercio di diamanti.

La fedeltà rigida e intoccabile respirata con l'universo potteriano, cessa di essere un ostacolo, insomma, anzi, teoricamente, stavolta più lontano ci si discostava dal modello classico, più chance si accumulavano di realizzare un buon prodotto e raggiungere eventuali consensi. Volenti o nolenti, però, quando nel sangue ti manca l’indole ribelle, l’istinto di gettarti nel vuoto e di azzardare, finisci sempre col rimanere sul ciglio del burrone guardando cosa c’è sotto a testa chinata e vertigini addosso. Esempio, questo, preso non a caso perché in “The Legend Of Tarzan” di burroni da cui gettarsi e, soprattutto, di liane a cui aggrapparsi che solamente Spider-Man, ce ne sono a bizzeffe e rappresentano, senza alcun dubbio, il meglio assoluto di uno spettacolo, in realtà, piuttosto rigido che - come per Yates sul ciglio – pare quasi voler lanciarsi, ma senza trovare mai la spinta necessaria per spiccare il volo. Colpa di una narrazione compassata e fiacca che proprio non ce la fa a non piacersi troppo e a crogiolarsi, a respingere i flashback superflui e soporiferi e a non mandare all'aria le promesse fatte di una versione vivace, fuori dagli schemi, con la quale rivitalizzare la genesi consumata e popolare dell’uomo delle scimmie e Re della giungla. Appare sempre disorganizzato Yates, frettoloso nelle scene d'azione e superficiale quando prova a farsi serio e ad affrontare argomenti moderni come lo sfruttamento e lo scontro tra razze: tematiche all'avanguardia, delicate, che tuttavia una sceneggiatura come quella che ha tra le mani non può permettersi il lusso di esaminare neanche se volesse leggerle a bassa voce.

A conservare la pelle, dunque, sono solamente gli esperti e infallibili Samuel L. Jackson e Christoph Waltz, vincolati in ruoli che, probabilmente, controllano come le loro braccia e le loro gambe, ma con i quali riescono a risultare sempre ordinati e impeccabili quando si tratta di stare in scena e orchestrare. Un talento, questo, che a Yates avrebbe fatto assai comodo, segno distintivo di tutti quei registi (e attori, appunto) che sanno sempre come cavarsela, a prescindere dalle condizioni, dalle difficoltà e dalle regole. Ma francamente, lui, regista non lo è, è un impiegato. E gli impiegati da che mondo è mondo non sanno orchestrare, sanno eseguire.

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