Suicide Squad - La Recensione

suicide squad poster
È curioso che durante la proiezione stampa (mista a fan) di “Suicide Squad”, tra gli ospiti, fossero presenti proprio Claudio Santamaria e Gabriele Mainetti.
E’ curioso perché proprio a loro veniva da pensare quando si provava ad immaginare cosa avrebbe dovuto fare David Ayer per esaltare al massimo la sua pellicola: dove lo spirito e l’atteggiamento scanzonato di “Lo Chiamavano Jeeg Robot”, a occhio e croce, appariva come metodo migliore ed efficace per affrontare una sfida nella quale si andavano a riunire un gruppo di malati mentali, selezionati dal governo, costretti a collaborare tra loro per raggiungere lo scopo unico di salvare il mondo dall’ennesima minaccia.
Certo, il nostro, magari, era un pensiero più fantasioso dell’incipit sopra citato; magari Ayer del film nostrano nemmeno è a conoscenza, ancora: eppure se, per sbaglio, ci fosse entrato in contatto, prima di iniziare le sue riprese, forse, avrebbe potuto cogliere degli spunti utili a salvargli la pelle.

Perché a “Suicide Squad” manca esattamente quello che in “Lo Chiamavano Jeeg Robot” era forte e chiaro, quei binari che oltrepassano la semplice voglia di stupire e di flirtare con lo spettatore, andando a posizionarsi in maniera coerente su di un tragitto abbastanza logico da permettere a una tela, altrimenti solo fine a sé stessa, di funzionare e di resistere a lungo termine. Sembra attaccata con lo scotch, infatti, la struttura progettata da Ayer, pezzo dopo pezzo, senza cognizione di causa, con l’unico intento di velocizzare spiegazioni preliminari che, seppur indispensabili, intralciano quel filo narrativo principale che più interessa, dedicato, in sostanza, alla convivenza e all’aderenza della squadra del titolo alla missione da intraprendere. Somiglia quasi ad un trailer gigantesco ed infinito, il suo lavoro (specie nella prima parte), con flashback, camei, scene spesso poco utili alla trama, che si danno il cambio generando tanta confusione e fornendo la sensazione di un’operazione dedicata prevalentemente ad un fan-service a cui sta a cuore più l’aspetto visivo da simulare, che l’esperienza di una visione intrattenitiva di basso, medio o alto livello che sia. Il che, obiettivamente, è un peccato enorme, se riflettiamo a quante potenzialità poteva avere una storia del genere per divertirsi e per divertire: attingendo di prepotenza al parco attori/personaggi a sua disposizione e dandoci dentro a ruota libera sparando quella pazzia e quel dark-side non con la stessa delicatezza di una pistola ad aria compressa, bensì adoperandoli come punti di forza da cui trarre vantaggi a ripetizione.

deadshot harley quinnPerò dice di non essersi inginocchiato Ayer, di essere rimasto in piedi: citando con orgoglio il rivoluzionario Emiliano Zapata per rispondere alle critiche che la stampa statunitense ha mosso di recente al suo film. Se così fosse (e di dubbi ne abbiamo) vorrebbe dire che il “Suicide Squad” che abbiamo visto sia il prodotto puro e non contaminato che il regista aveva in mente sin dall’inizio, un prodotto che tuttavia somiglia maggiormente ai dettami e alle regole dell’industria contemporanea, piuttosto che alle idee cinematografiche di un regista che, prima di mettersi a giocare coi cine-comic, sicuramente, aveva dimostrato di non essere del tutto estraneo alla materia praticata (come pare emergere ora).
Di rivoluzionario comunque c’è ben poco, ad essere onesti, all’interno della sua opera: a parte il parallelismo tra buoni e cattivi tenuto in superficie (che errore), il Joker non convincente di Jared Leto - a cui non bastano trucco, costume e una risatina prolungata per guadagnarsi la pagnotta (e che si veda meno di quanto ci si potesse aspettare non fa differenza, anzi) - e un Will Smith protagonista a sorpresa, capace di rubare a tutti la scena, favorito anche da un personaggio scritto di gran lunga meglio degli altri. Di rivoluzionario, al massimo, nella sua opera potrebbe esserci l’ombra di un regista (e sceneggiatore) schiacciato dagli ordini di una major che, nonostante tutto, ha deciso di difendere pubblicamente: tirando in ballo frasi di ribellione di chi rivoluzionario lo è stato e limitando i danni di una collaborazione infelice che, guarda un po’, prima di rinnovare ammette di voler rivedere a tavolino. Ma queste, oltre ad essere solo supposizioni campate per aria, che ogni tanto facciamo per tentare di spiegare ciò che ci lascia perplessi, sono soprattutto elementi che con il cinema in sé hanno ben poco a che vedere e che distolgono l’attenzione.

La sostanza, alla fine, è che tra il caos di “Batman v Superman: Dawn Of Justice” e quello di “Suicide Squad” non passa poi molto: sono entrambi film scritti e diretti malissimo (quello di Ayer, forse, un tantino arrogante), pensati per fare box-office facile e mai curati con l’ambizione di provare almeno a raggiungere un risultato decente. E non serve tanto per rendersi conto di ciò, basterebbe accantonare un secondo quell’entusiasmo ingiustificato scatenato con furbizia durante l’attesa, non lasciarsi ipnotizzare dal cuscinetto astuto della colonna sonora e valutare obiettivamente quella che è la nuda e cruda realtà dei fatti.

Trailer:

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