Io, Daniel Blake - La Recensione

Daniel Blake
Io a Ken Loach lo capisco. Lo capisco e gli voglio bene. Perché, a volte, certi film devi farli più per provocare e per denunciare una condizione inaccettabile, piuttosto che per una sceneggiatura forte e potente che vale la pena portare sul grande schermo.
Questo non significa che “Io, Daniel Blake” non sia una storia giusta per il cinema o che con esso non centri nulla, anzi, ma che tuttavia una seconda stesura, o una revisione, magari, tanto male non gli avrebbe fatto.

Se ci si sofferma sulla tematica non ci sarebbe da dire nulla a Loach: che alla burocrazia che tocca a chi non ha lavoro o, peggio ancora, a chi ce l’aveva, ma ha dovuto lasciarlo per via di un problema cardiaco diagnosticato dal medico, non risparmia un singolo centesimo, mettendola alla berlina in tutto il suo sadismo e in tutta la placida malvagità con cui si prende gioco dei deboli e dei disperati. Se però si va a guardare a “Io, Daniel Blake” sotto il profilo filmico, sotto la qualità della narrazione e la costruzione di alcune scene, allora, la situazione è un po’ diversa, mostra il fianco, prestandosi a leggerezze e a forzature che, sicuramente, non fanno bene a un dramma che di opportunità per farsi duro, disumano e potente ne aveva abbastanza da non doversi appoggiare a nient’altro che alla verità, una verità che Loach spiega, ma romanzandola inutilmente e ulteriormente rendendola più tragica.
Attacca uno Stato specifico “Io, Daniel Blake”, la Gran Bretagna, uno Stato che, a quanto pare, ha deciso di alimentare l’angoscia e l’umiliazione degli ultimi, rimbalzandoli continuamente nelle loro richieste urgenti e costernate di assistenza e di asilo. Lo fa, in sostanza, per liberarsene, per metterli alle corde, lasciandoli in pasto ad un destino economicamente, per lui, meno caro e di cui, una volta compiuto, non deve farsi carico, tutto chiaramente attraverso una serie di giochini d’astuzia (legali) architettati per confondere, che vanno a celebrare quel famoso proverbio del gatto che si morde la coda.

Daniel BlakeStare in empatia con il suo film è quindi fin troppo semplice, scontato. Non scuotere la testa di fronte a un sistema che obbliga un anziano a cercare lavori che non esistono e poi a rifiutarli quando si palesano perché non in salute per praticarli è effettivamente impossibile, così come lo è non rimanere di ghiaccio quando una madre trentenne scende a compromessi bassissimi per non far mancare nulla ai propri figli derisi a scuola per le loro scarpe rotte. Ciò che viene a mancare, tuttavia, in aggiunta a questo, è l’intero aspetto emozionale, quello che ti porta a commuovere per i personaggi, a sentire il loro dolore come fossero a te vicini, andando oltre quelle azioni spontanee, dettate dallo spirito di umanità che circa tutti abbiamo e condividiamo per il prossimo.
E parliamo di uno scarto di cui si sente la mancanza soprattutto al compimento di “Io, Daniel Blake”, quando, in teoria, ci si aspetterebbe di venir colpiti da una grandinata di sentimenti che non arriva - o non arriva decisa, perlomeno - perché rimpiazzati da quell’impassibilità (che non è indifferenza, attenzione) di fondo, generata dai tratti fortemente calcati dal regista per ingigantire l’involucro di una vicenda a cui bastava assai meno per camminare da sola e andare lontano.

Effetto che, a parer di chi scrive, è figlio più dell’irruenza di Loach di scoperchiare tale sistema, smascherandolo pubblicamente, che della volontà di utilizzarlo per fabbricare al suo interno una storia efficace e pregevole. Col risultato di un opera perfettamente riuscita se voleva picchiare (politicamente) duro, ma molto meno se il suo scopo doveva essere quello di contenere l'impeto (cinematografico) che in molti pensavamo e credevamo di trovare.

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