Fai Bei Sogni - La Recensione

Fai Bei Sogni Mastandrea
Adatta liberamente il romanzo (autobiografico) di Massimo Gramellini, Marco Bellocchio, incentrato sulla perdita e l’elaborazione del lutto di un bambino a seguito della (misteriosa) scomparsa della madre. Una madre che - facendo un confronto forzato con “I Pugni In Tasca”, film d’esordio del regista - per lui non era affatto un peso o una figura odiata, semmai la donna di cui era follemente innamorato e dalla quale mai avrebbe voluto (o immaginato di) separarsi.

Deve essere stata la materia di base, dunque, ad attirare Bellocchio verso un racconto profondo e complesso che personale lo è solo sulla carta, specie se a guardarlo, più che quelli di un figlio, ci sono gli occhi e l’attenzione di un genitore. Il dolore e la chiusura nei confronti del mondo sofferti da Massimo - un Valerio Mastandrea a cui la pellicola si dedica maggiormente nella seconda parte - sono più che altro infatti provocati da una verità ambigua, una di quelle dette per proteggere l’innocenza e la spensieratezza di un bambino troppo piccolo, ancora, per venire a conoscenza della realtà dei fatti e della genesi dei suoi fattori. Un bambino a cui è mancato, soprattutto, l’apporto del proprio padre, incapace di avvicinarsi a lui tanto quanto avrebbe dovuto, preferendo la scorciatoia di una tata che, pur prendendosene cura, non ha fatto altro che aumentare quel distacco familiare e quelle ferite che lo hanno condannato a vivere in un limbo composto prevalentemente da ricordi, ferite e sensi di colpa. Condizione tetra e malinconica che “Fai Bei Sogni” trasmette in gran parte attraverso una fotografia dai colori scuri, orientata al buio e piena di ombre, che fa da contraltare ai flashback dalla composizione illuminatissima che vedono Massimo giocare, ridere e ballare con una madre piena di vita, fermandosi a fissarla, spesso, come attratto da una creatura aliena senza la quale sarebbe perso.

Fai Bei Sogni GramelliniEvocazioni e sensazioni che incorniciano un po’ il meglio di “Fai Bei Sogni”, il quale lontano da questi momenti - intensi per definizione - arranca un tantino, stentando a tenere il ritmo e soffrendo la direzione di un flusso narrativo lungo decenni e carico di materiale. Procede a singhiozzo Bellocchio, lucido su ciò che ha da dire e più opaco nella maniera migliore da applicare per farlo, plasmando un dissesto che schiaccia abbastanza le proporzioni del suo lavoro, al punto da renderlo simile ad uno strano oggetto con cui entrare in contatto. Dell’autore e vicedirettore de La Stampa, perciò, la pellicola lascia intravedere poco, non si sofferma a sottolineare con puntigliosità le derive: quasi a voler tenere a distanza di sicurezza la paura d’essere scambiata per quella biografia che non è e non ha la minima intenzione di essere; e non tanto perché ci sia qualcosa di male, ma perché ciò andrebbe a limitare quel raggio d’azione su cui il suo regista ha intenzione di far fuoco.

Quello di Bellocchio, per quanto articolato e difficoltoso nei modi, del resto è un messaggio universale, destinato non solo a raccontare la storia di un singolo. Un messaggio a cui non dispiacerebbe riuscire a infilarsi nel rapporto tra genitori e figli depositando un post-it di sicurezza da leggere all'occorrenza. Lo stesso che avrebbe salvato il Massimo del suo film, per intenderci, impedendogli di esclamare quel “non è giusto” nella scena madre di “Fai Bei Sogni” e di chiosare con quell'amaro “è colpa mia” dal sapore di uno schiaffo rumoroso e non necessario. Uno schiaffo che, forse, neppure l’abbraccio amorevole di Bérénice Bejo rischia di revocare.

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