Silence - La Recensione

Silence ScorseseNon c’è da stupirsi se Martin Scorsese abbia impiegato circa trent’anni a realizzare un film come “Silence”. Un film faticoso, enorme, il cui sacrificio investito è intriso nella trama stessa e straborda dall’esperienza visiva facendosi quasi tangibile sul corpo dello spettatore. Perché quello di “Silence” è uno Scorsese intimo, sincero, viscerale, che espone al mondo il suo concetto di religione e il suo rapporto (conflittuale) con Dio, e nel farlo rinuncia alla sua versione più commerciale, viziosa, fatta di gangster, protagonisti sboccati e ritmi incalzanti e travolgenti.

Non a torto ad alcuni è parso scorgere rimandi al cinema di Akira Kurosawa e di Terrence Malik seguendo la storia: uno sguardo estraneo quindi, antico, dal sapore esistenziale, dovuto in parte all’ambientazione giapponese del Seicento, dove i due Gesuiti protagonisti sbarcano per scoprire che fine abbia fatto il loro mentore scomparso, ed in parte al percorso pregno di violenza e dolore a cui saranno costretti ad andare incontro, mettendo a dura prova la loro fede, maltrattata da un popolo spiritualmente Buddista, ma fascista nei mezzi. E’ una palude dove il Cristianesimo non può attecchire infatti quella terra misteriosa e desolata che li accoglie, una frase ripetuta più e più volte che anziché risuonare come una preoccupazione o un dubbio è uguale identica a una minaccia, con tanto di inquisitore perverso che per evitare torture ai suoi prigionieri li istiga a calpestare l’immagine di Dio o a sputare sulla sua croce nel caso in cui nel primo test non dimostrino sufficiente convinzione. Una tematica attualissima, urgente, che non può non suscitare paragoni con l’Isis e con la cronaca moderna in generale, che ogni giorno è piena zeppa di scontri tra culture e popoli diversi, in un mondo che, per dirla alla Scorsese, sta perdendo lentamente luce, avvicinandosi all’oscurità. Eppure, a detta proprio del regista, ciò non è nient’altro che un fortuito caso, un qualcosa che rende il suo lavoro incredibilmente puntuale, ma senza la minima programmazione, perché la sceneggiatura di “Silence” - tratta peraltro dal romanzo di Shûsaku Endô e rimaneggiata nel corso dei decenni - avrebbe dovuto avere questo tipo di impronta e di spirito a prescindere dalle tempistiche di uscita, confinata quindi esclusivamente al rapporto uomo-credo che effettivamente, poi, è ciò su cui vuole calcare la mano e interiorizzare maggiormente.

Silence Andrew GarfieldParliamo di un’opera non per tutti allora, ma soprattutto di un’opera che silenziosamente – appunto - chiede allo spettatore di fare lui dei passi in avanti ed avvicinarsi quanto basta per farsi esplorare e vivere nel profondo: in particolare se quest’ultimo è qualcuno non concretamente vicino alla materia e, dunque, ancor più distante dalle questioni mistiche e di credo. Ciò che fa Scorsese, del resto, è ragionare sul significato di fede e su quante sfumature esso possa avere, raccontando la parabola di due Preti dal destino simile (uno però più ostinato dell’altro), maltrattati e umiliati nella loro integrità e responsabili delle ferite, spesso fatali, che i loro discepoli son disposti a farsi infliggere pur di non tradire e di non chinarsi alla brutalità e alla ferocia dell’uomo. I due rappresentano, a turno, il simbolo del progresso Cristiano in terra nipponica, la speranza di quella minoranza che al Buddismo ha scelto di dire no e vorrebbe garantirsi la libertà, magari di sbagliare, eppure di continuare a seguire una scelta arbitraria. Questo sebbene la risposta che “Silence” sente di voler concedere a tale enigma sia, in sostanza, una di quelle più pratiche che spirituali, una risposta che nel Seicento, forse, poteva essere considerata rivoluzionaria, ma che adesso, pensiamo, è quella che in molti autonomamente hanno deciso di intraprendere e di perseguire.

Così, a livello di potenza filmica ecclesiastica, Scorsese, lascia un tantino a bocca asciutta, con un film che fa sentire intensamente quanto a lui sia connesso, ma con il quale non si è mai in totale congiunzione e legittimo trasporto. Narrativamente e stilisticamente parlando una seconda parte assai più sciolta e vivace della prima bisogna ammettere che lo aiuti parecchio a recuperare quota, compattando e ottimizzando ciò che altrimenti avrebbe rischiato di rimanere sfuggente, impreciso e troppo personale o fine a sé stesso.
Che poi è il rischio a cui vanno incontro solitamente prodotti così imbrogliati e voluti ad ogni costo dal loro autore.

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