Logan - La Recensione

Logan Wolverine
Era l’ultima chiamata, la chance finale per make the Wolverine great again: cosa che non accadeva dai primi due “X-Men” diretti da Bryan Singer e che mai era riuscita ai due spin-off dedicati al personaggio diretti da Gavin Hood prima e James Mangold poi. Colpa di un taglio inizialmente fin troppo blockbusteriano, divenuto in seconda battuta leggermente più intimo, serio, ma senza comunque i connotati necessari per somigliare a quella visione del Batman nolaniano che si voleva, improvvisamente, andare a imitare. Visione che, fortunatamente, in questo terzo (e ultimo) tentativo viene abbandonata su tutta la linea per costruire qualcosa di completamente nuovo, che se ne frega (in gran parte, almeno) delle regole industriali del cine-comic, cercando di restituire giustizia a quel Logan forse stanco di venire umiliato e maltrattato al cinema.

Per cui, pronti, via ed ecco che le cose vengono messe subito in chiaro, con una scena iniziale in cui il Wolverine di Hugh Jackman si presenta al pubblico neanche fosse l’ultima versione di Freddy Krueger tornata dalle tenebre per vendicarsi. Il messaggio è schietto, non fraintendibile: in questo “Logan” non si fanno sconti e se c’è da picchiare non si guarda in faccia a nessuno, anzi molto spesso le facce vengono addirittura trafitte, se non proprio tagliate via con la testa dai corpi. Scorre molto sangue, rabbia e disperazione infatti in questa nuova avventura, che fa un passo lunghissimo, avanti nel futuro, mostrando la razza mutante praticamente estinta dalla faccia della terra e un Wolverine stanco, avvilito, che guida una limousine con l’intento di mettere da parte i soldi necessari per comprare una barca e fuggire via, chissà dove. Con lui, al sicuro nel rifugio sperduto e trasandato, isolato dalla civiltà, anche un Professor Xavier malato e svigorito dalla vecchiaia, dipendente da medicine e in difficoltà nello gestire il suo enorme potere psichico: che risulta ancora funzionante, tuttavia, per riconoscere le doti piuttosto interessanti di una bambina molto particolare, accompagnata da un infermiera messicana che cerca disperatamente il supporto di Logan per raccontargli una storia che potrebbe cambiare velocemente ogni sua certezza e priorità.

Logan Hugh JackmanSomiglia più a un western, quindi, questa terza pellicola solitaria - che solitaria poi non è - del mutante dagli artigli affilati, rivestito in adamantio. Un viaggio metaforico ed effettivo con il quale la personalità, le ferite e la vera anima del personaggio finalmente escono fuori, identificando come non mai il dolore e la complessità emotiva di un uomo apparentemente si, egoista e testardo, eppure regolarmente incapace di voltare le spalle di fronte alle ingiustizie, schierandosi sempre dalla parte giusta. Ci mette il petto, stavolta Wolverine, i muscoli, il sudore, le urla e le lacrime. Mette in gioco tutto sé stesso per salvare le sorti di una nuova generazione di mutanti a cui non vuole lasciare in eredità la sofferenza che conosce e che ha già vissuto; si trasforma in padre, in figlio, animale feroce e tutto ciò che serve per andare a mettere quel punto a capo che non riguarda solo il suo futuro (al cinema), ma soprattutto quello di coloro che verranno e che non meritano di ripercorrere le stesse tappe, così come di rinunciare a quel concetto di famiglia che in “Logan” a un certo punto fa capolino, tracciando forse il picco emozionale maggiore nel cuore pulsante di noi spettatori.

Perché quello diretto da Mangold - il quale torna e riscatta totalmente il suo lavoro precedente - è un film che ha ben chiaro quale deve essere il suo percorso, un film palesemente ragionato in favore del suo (anti)eroe, con un sottotesto che non salva affatto la razza umana e il suo rapporto con la diversità e che graffia quindi senza chiedere il permesso e nonostante le piccole sbavature che non bastano a ridimensionarlo.
Un film, appunto, che make the Wolverine great again.

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