La Voce Di Hind Rajab - La Recensione

Appena è stato presentato alla Mostra Internazionale D'Arte Cinematografica di Venezia, poche settimane fa, ha monopolizzato il dibattito. Quasi la maggioranza della critica era convinta - o pretendeva, addirittura - che "La Voce Di Hind Rajab" vincesse il Leone D'Oro, anche se poi, come sappiamo, le scelte sono state diverse, e si è dovuto accontentare - si fa per dire - del Leone D'Argento, il secondo riconoscimento più importante del concorso.

Chiaramente, era palese che l'intera discussione e il sostegno partito in favore della pellicola scritta e diretta dalla tunisina Kawthar ibn Haniyya, avesse origini e motivazioni che andavano a sconfinare sulle classiche, riservate esclusivamente al valore artistico dell'opera. Perché "La Voce Di Hind Rajab", in questo momento più che mai, è un film politico, ma non politico nel senso che affronta il tema della politica - anche se, ovviamente, a suo modo fa pure quello - ma politico per come inevitabilmente accende, fermenta e infervora un dibattito già legittimamente bollente ed incessante. Stiamo parlando del genocidio di Israele contro la popolazione palestinese che si sta consumando sulla striscia di Gaza e che, in questa storia, viene sintetizzato - nella sua insensibile e impunita disumanità - con la telefonata - le cui registrazioni sono reali, copiate e incollate - fatta il 29 Gennaio 2024 da questa bambina, al centralino della Mezzaluna Rossa di Ramallah. In pratica, la finzione riguarda solamente la ricostruzione dei dialoghi, delle discussioni (violente, spesso) e del complicatissimo coordinamento che gli operatori presenti quel giorno hanno dovuto prendere in carico, gestire e affrontare cercando in tutti i modi di evitare ciò che poi non è stato possibile: la morte della piccola. Un documento impressionante, per certi versi incomprensibile, a cui si fa davvero fatica ad assistere (e non solo per scelte artistiche), a sottostare. Per non parlare poi di quanto sia superficiale il doversi mettere, magari, a discuterne su pregi e difetti.

Perché di fronte a un cinema così, che scivola naturalmente nel documentario, nell'attualità, nell'urgenza e nella vita vera, non c'è spazio per la critica, la quale dovrebbe nel migliore dei casi limitarsi a sostenere, divulgare, invitare chiunque a vedere il film, a prescindere dal dolore, il peso e le difficoltà che una visione del genere suscita e rischia di stimolare. Haniyya lo sa, probabilmente, e infatti cerca di replicare il più fedelmente possibile uno dei giorni lavorativi peggiori della storia dell'umanità, mostrando come una missione incredibilmente logica e logisticamente semplice da portare a termine - il salvataggio chiedeva 8 minuti di tempo - in situazioni di guerra si trasformi al pari di un'equazione algebrica (o, comunque, c'è chi fa in modo che sia così). E, allora, quegli 8 minuti cortissimi, ecco che si trasformano in delle ore interminabili, ore di paura, spari, esplosioni, con la voce della bambina che va e che viene e che per alcuni minuti si fa irraggiungibile, mentre corridoi di salvataggio tentennano, vengono accordati e non confermati, lasciati in sospeso, sbarrati dalle macerie.

Uno scenario da palpitazioni che tocca il culmine con le immagini che vanno a chiudere la pellicola, quelle di uno smartphone che, entrando in campo, ci mostra il video autentico, girato quel giorno, alternandolo in tempo reale alla messa in scena. Roba da brividi che non fa che aumentare lo sconvolgimento, l'indignazione. Quella nei confronti di una storia - e per storia qui non intendiamo solo quella del film, precisiamo - che è stata sbagliata fin dall'inizio e a cui nessuno, pur potendo opporsi, agire e ordinare, ha mai davvero eseguito un'estrema e convincente opposizione.

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