E mentre Joel ne ha approfittato per dedicarsi al "Macbeth", nel quale era presente anche sua moglie Frances McDormand, c'è Ethan che, magari un po' nostalgico degli esordi, sempre in collaborazione con la sua di moglie - Tricia Cooke, sceneggiatrice e produttrice - sta lavorando a quella che è hanno ribattezzato entrambi come lesbian B-movie trilogy. Di cui questo "Honey Don't", appunto, è il secondo capitolo.
Nessun legame col precedente "Drive-Away Dolls", però, se non quello che vede l'ormai lanciatissima Margaret Qualley tornare nei panni della protagonista, qui trascinata dentro una serie di sfortunati eventi che finiscono per stuzzicare la curiosità e i dubbi del detective privato che è in lei. C'è una morte, infatti, che teoricamente non le riguarda, se non per un appuntamento che quella vittima avrebbe dovuto avere con lei il giorno successivo. Un coinvolgimento sfiorato, quindi, una questione di agenda piena oggi e vuota domani, sufficiente a smuovere la sua sensibilità e a spingerla ad indagare lo stesso, raccogliere informazioni, mentre strani omicidi (slegati?) continuano a susseguirsi e a creare fermento nella cittadina di Bakersfield, in California. Di mezzo, scoprirà esserci lo zampino di un reverendo - un farabutto e arrogante Chris Evans - appartenente a una chiesa assai discutibile e solito spassarsela con le fedeli: e segretamente responsabile di un traffico di droga coordinato da "i francesi", i quali non sembrano per nulla soddisfatti della superficialità con cui sta gestendo gli affari.
Siamo dalle parti del neo-noir, insomma, con influenze di Raymond Chandler a dettare le coordinate e una serie di deviazioni che ogni tanto servono a uscir fuori dall'investigazione, per liberare la mente in camera da letto: dove la Honey di Qualley si dà da fare, ma solo con le donne e senza alcun impegno, e lo stesso vale - seppur con maggiore idiozia, inquadrature comprese - per il reverendo di Evans.
Eppure, in quella che in molti hanno già etichettato - frettolosamente? - come una commedia, per via dei toni, i personaggi, e gli avvenimenti strambi, che molto ricordano il cinema più leggero - e divertente - dei fratelli Coen, bisogna ammettere che c'è di più. Come una serie di caratterizzazioni, comportamenti e dettagli che potrebbero essere responsabili del mancato spasso prodotto da "Honey Don't" - che ridere non fa quasi mai, onestamente - e di quella sensazione che ai nostri occhi - italiani sì, ma probabilmente europei pure - ricorda molto lo stato attuale di un'America che, adesso, al culmine della sua era trumpiana, ha trasformato il demenziale e lo stupido in una specie di realtà distopica, rendendo credibile e plausibile ciò che era assurdo nel cinema coeniano degli anni '90 e creando, pertanto, una sorta di paradosso che rema contro, o comunque va a depotenziare quell'umorismo.
Uomini di chiesa che si approfittano di chi è debole e in difficoltà, agenti armati che, guidati dalla loro fede politica e/o religiosa, praticano giustizia privata, la tendenza a costruire legami superficiali per non condividere nulla al di sotto della facciata, sono tutti sintomi che bucano il contesto e il raggio d'azione della pellicola, riportando dritti all'attualità, al concreto.
Ed è inverosimile pensare che Coen e Cooke non abbiano calcolato tutto ciò, che sia solo frutto di una coincidenza, del caso. A maggior ragione dopo una scena di chiusura che sta li a ricordarci quanto ormai il pericolo, il male, non sia più riconoscibile a occhio nudo, perché privo di simboli, dell'identificazione esterna che aveva una volta. "Sono intorno a noi, in mezzo a noi...", diceva Frankie Hi-Nrg Mc, per cui non resta che alzare la guardia e stare accorti.
Trailer:
Commenti
Posta un commento