No Other Choice - La Recensione

La pistola di cui il protagonista di "No Other Choice" si serve per mettere in atto il folle piano di uccidere tutta la concorrenza che potrebbe rubargli il posto di lavoro, è un reperto della guerra di Corea. Una guerra che - per farla breve - vedeva la Corea del Nord comunista, invadere quella del Sud capitalista, provocando una lotta intestina che - di fatto - non si è mai risolta per davvero. E, allora, forse non è un riferimento a caso quello che Park Chan-wook sembra sistemare li, quasi sullo sfondo, a contorno. Perché oggi quella guerra li è tornata di nuovo e non è più politica, ma sociale. Non riguarda più solo la Corea, ma il mondo intero (e su questo tema c'è un momento padre figlio fugace, ma enorme, agghiacciante). Ed è la cosiddetta guerra tra pover(acc)i.

Comincia con una scena illuminata radiosamente, la sua pellicola, con un protagonista che sta chiaramente vivendo l'apice del suo successo. Vive in una villa bellissima con la moglie, due figli e due cani, e non ha problemi ad ammettere di avere tutto. Lavora per un'industria cartaria e ricopre uno dei ruoli più rilevanti, lo stesso che nella scena successiva - periodicamente avanti di qualche mese - finisce col perdere per colpa di una fusione con gli americani e i consecutivi tagli al personale (a cui si oppone protestando senza successo). Un colpo durissimo, prima economico e poi di autostima, specialmente perché in quel settore di riferimento non è così facile riuscire a trovare un posto di ripiego. E la concorrenza, seppur limitata, è spietata (e le aziende ci marciano). Della scena radiosa di cui sopra, insomma, restano le briciole e lentamente la moglie capisce che non si possono più permettere di fare la vita a cui erano abituati. Stanno scendendo rapidamente nella scala sociale e per un marito e padre di famiglia (coreano, ma non solo), ciò significa fallimento, umiliazione, frustrazione. Sentimenti ai quali non vede altra scelta, appunto, se non quella di reagire drasticamente: uccidendo i tre candidati migliori di lui, interessati alla sua stessa posizione.

È una storia grottesca, ironica, a tratti persino comica, quella di "No Other Choice". Ma pure tragica, disperata e inevitabilmente feroce. Park Chan-wook, del resto, è uno di quelli che il cinema riesce a modellarlo e a plasmarlo a piacimento, e sempre con grande precisione, acume, stile (la scena in cui viene uccisa la vittima numero uno è pazzesca). E stavolta vuole divertirsi, svagarsi, raccontare il cambiamento più pericoloso con il quale abbiamo (e avremo) a che fare - l'automatizzazione integrale dei processi e il pericolo dell'intelligenza artificiale - utilizzando una miscela di toni che gli permetta di non prendersi troppo sul serio, o comunque non a pieno regime. Lo fa, puntando l'occhio sulla società, su di noi, sulle ripercussioni emotive e relazionali con cui umanamente chiunque sarebbe costretto a vivere e a fare i conti. Ripercussioni depressive, estreme, istintive, in certi casi pure squattrinate, ma non per questo meno spaventose e angoscianti. La caduta di un padre che trascina agli inferi una famiglia intera e indirettamente ne colora le ombre, i traumi, lasciando cicatrici che mai più se ne potranno andare, lascia amarezza a prescindere dalle risate. La stessa amarezza ribadita nel corso di una scena finale dove il riscatto, se c'è, sa più di pareggio finto (temporaneo?) che di vittoria, con giorni grigi e piovosi che raramente torneranno a far spazio ai luminosi raggi di sole.

E di fronte a tale maestria, a una lezione di cinema (antropologico, politico, sociale) così disarmante e straordinaria a noi non resta che toglierci il cappello. Riconoscendo il piccolo miracolo di un film che fa apparire facilissimo un lavoro che, messo in mano al 99% dei registi, sarebbe stato un pasticcio assicurato. Perché il talento, la sensibilità e l'esperienza, per fortuna, non sono automatizzabili da niente e da nessuno. Per ora.

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