The Great Wall - La Recensione

The Great Wall Poster
Dopo il calcio, c’è il cinema.
No, non è una classifica sugli interessi degli italiani, casomai il monito di un paese economicamente potentissimo che ha deciso di voler recuperare terreno su alcuni settori meno sviluppati investendo pesante per crescere velocemente.
Così, come molti calciatori famosi traslocano in Cina per istituire prestigio a un campionato sconosciuto, ma capace di poter pagare stipendi ultra-milionari, Matt Damon compie lo stesso viaggio – non sappiamo se con stessa retribuzione - per assecondare la più grande co-produzione tra Cina e Stati Uniti che, guarda un po’, mira a raggiungere i livelli e i fasti del classico blockbuster americano.

E’ tutto grande in “The Great Wall”, gigantesco, lo dice pure il personaggio di Matt Damon quando da prigioniero, sul tetto della Muraglia - grande pure lei, ovviamente - vede combattere l’esercito cinese contro strane creature jurassiche/aliene che - gli verrà spiegato poi - fanno parte di una maledizione che si scatena ogni sessant'anni, nata per punire l’uomo della sua avidità incessante. Parole che a lui scivolano come sapone tra le mani: mercenario per professione e capitato in quelle terre solo per rubare polvere da sparo da vendere altrove nelle guerre in cui combatte una volta per una bandiera, una volta per un’altra. Però nel film diretto da Zhang Yimou, sebbene si guardi attentamente ad imitare stile e forma dei prodotti a stelle e strisce, preservare la cultura orientale è una priorità assoluta, una priorità riconoscibile sia nella costruzione di una trama (per quanto scarna) che vuole rifarsi alle leggende e all'epicità del luogo e sia in quelle parole filosofiche espresse dalla donna che agirà da traduttrice per Damon e il suo partner, che narra del combattimento non come un lavoro per guadagnarsi il pane prima e il denaro poi, ma come una possibilità per accrescere ogni volta la fiducia verso quel prossimo che rischia la vita al tuo fianco.

The Great Wall FilmNulla di trascendentale, ovviamente, sia chiaro, il viaggio spirituale che Tom Cruise praticava in “L’Ultimo Samurai” non è nella lista delle cose da fare di una pellicola che ha come unico interesse quello d’intrattenere e, al massimo, stupire con effetti speciali, azione esagerata e creature spaventose, scaltre, vagamente ispirate ai dinosauri. Una missione che riesce benissimo a “The Great Wall”, il quale sfruttando l’ampiezza delle infinite scenografie a sua disposizione e le idee innovative di una spettacolarità sconosciuta alla mente occidentale, riesce ad affacciarsi come qualcosa di già visto, ordinario, ma comunque differente e pregevole. Certo, i personaggi sono tagliati con l’accetta (Damon compreso), lo svolgimento della trama tende a lasciar correre su molti dettagli che, talvolta, fanno anche ridere involontariamente, ma solitamente quando si sceglie di andarsi a distrarre con opere di questo tipo, cercare il pelo nell'uovo all'interno della sceneggiatura è mossa alquanto contraddittoria e stupida.

Diciamo che se dovessimo stringerla in un paragone, un paragone semplice, calcistico, viste le ultime: con l’operazione “The Great Wall” la Cina mette la prima pedina su quella che potrebbe essere in futuro un’industria potenzialmente più prolifica, solida ed efficace, come un top player arrivato in una squadra ancora tutta da costruire e da rinforzare per poter stare al suo passo e alla sua esperienza. Un lavoro che richiede quindi applicazione, tempo e denaro, anche se quest’ultimo, l’abbiamo capito, non sarà affatto un problema trovarlo.

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