The Place - La Recensione

The Place Poster Film
Il successo raggiunto con “Perfetti Sconosciuti” ha messo Paolo Genovese in una posizione molto particolare. Se da una parte infatti il regista ha conquistato carta semi-bianca nella realizzazione dei suoi progetti, dall’altra è anche vero che adesso non può più permettersi di tradire la fiducia dello spettatore: il che parafrasando significa dover continuare a tenere alto il livello dei suoi lavori e ridurre al minimo il margine d’errore.
Una pressione non da sottovalutare per un regista (e sceneggiatore) che ha sempre fatto cinema mainstream con leggerezza e “modesti” obiettivi (per quanto intrattenere lo spettatore, sia di per sé cosa nobile), ma anche un treno dei desideri da non farsi sfuggire per tentare, magari, di crescere e compiere il grande salto.

Grande salto che Genovese però accetta e che battezza con il nome di “The Place”, adattamento della serie televisiva americana “The Booth At The End” e prima volta in carriera, per lui, disconnesso dalla commedia e alle prese con un film dai toni cupi e prettamente drammatici. Decisione non casuale, forse, che da’ l’impressione di voler proseguire in maniera quasi del tutto naturale l’esplorazione di quel lato oscuro dell’essere umano cominciata in precedenza e che lo ha intrigato all'istante, trattata stavolta in maniera assai più aggressiva con un personaggio - quello di Valerio Mastandrea - che rappresenta in maniera del tutto misteriosa e indecifrabile quella porta di noi stessi con la quale non vorremmo assolutamente entrare mai in contatto. E’ sia tutto che niente, lui, del resto: un uomo di cui non si sa nulla, sempre presente al tavolino dello stesso bar con un’agendina al suo fianco, a cui pare sia stato concesso il potere di realizzare ogni tipo di desiderio da noi richiesto. E' sufficiente incontrarlo, comunicargli cos'è che si vorrebbe avere e poi, a seguito di un compito da portare a termine, moralmente orrendo, come per miracolo, l'evento si verificherà.

The Place MastandreaNon è lui il mostro, tuttavia, lui è colui che ai mostri gli dà da mangiare: come esplicitamente - ad un certo punto - Mastandrea dice papale papale, mentre l'espressione del suo viso lascia intravedere ancora quella punta di empatia, tipica di chi non è né Signore del male, né tantomeno suo servitore. Non c’è obbligo allora nel portare a termine le “missioni”, nel pagare il brutto prezzo che divide l’uomo dal raggiungimento del suo obiettivo, perché in “The Place” è tutto in mano al cliente, è tutta e rigorosamente questione di libero arbitrio. La volontà di Genovese è quella di mettere lo spettatore in contatto con la sua moralità; di utilizzare le storie fantasma dei vari personaggi che si susseguono all’interno del bar - da cui mai l’attenzione si sposta - per sollecitare nella nostra testa quel tarlo che, scavando, ci porta a riflettere e a chiederci velenosi: “chissà se ne sarei capace, io, di fare una cosa del genere in cambio di ciò che più al mondo mi renderebbe felice”.

Quesito cardine di una pellicola che, a volte, appare talmente immersa nel suo fare antropologico – tant'è che per Mastandrea sono importantissimi i dettagli, ovvero appuntare sul taccuino ciò che i suoi avventori hanno provato nel fare male al prossimo – da peccare di distrazione e concedersi piccoli cali a cui, per fortuna - sempre grazie a un’ottima scrittura - riesce comunque a riprendersi e a ripartire. Chiudendo i battenti con un finale irrisolto, assai più imploso di quanto non lo fosse quello di “Perfetti Sconosciuti”, che ha il pregio di non concedere alcun sollievo allo spettatore, il quale, uscito dalla sala, non potrà che arrovellarsi e mettersi a cercare risposte che, in fondo, in fondo, già conosce.

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