Pare sia una caratteristica indispensabile, per Luca Guadagnino, quella di avere nei suoi film una determinata ambientazione. Da “Io Sono L’Amore”, a “The Bigger Splash”, passando per l’ultimo “Chiamami Col Tuo Nome”, infatti, quella di partire dal presupposto di avere a disposizione delle case enormi, abitate da famiglie borghesi è diventata per lui praticamente una costante imprescindibile. Una costante che, forse, gli serve per sentirsi a proprio agio (in quegli ambienti, del resto, ci è cresciuto), per raccogliere l’ispirazione e, magari, aggiungere alle storie che racconta quel senso di intrigo che altrimenti non sarebbe possibile sostenere, perlomeno non col medesimo respiro.
Ci si perde, infatti, in queste dimore simili a dei castelli, composte da stanze sconfinate - alcune comunicanti, altre isolate – fatte apposta, sembra, per concedere - nel caso uno lo volesse - una privacy infinita. Potresti scomparirci per ore e ore nonostante in casa ci siano i tuoi genitori, governanti e aiutanti, impegnati ogni singolo minuto, e un via vai di ospiti dal ritmo regolare ed estemporaneo. Potresti trovare il silenzio che vai cercando o l’intimità che ti serve rifugiandoti in camera tua, in soffitta, in qualche piano superiore, o semplicemente uscendo a fare un giro in bici fino al lago o giù in paese. Insomma potresti, in sintesi, vivere una vita parallela, complicata da individuare e da tenere d’occhio, accumulando segreti e comportamenti che avresti tenuto probabilmente a freno in condizioni differenti.
Che poi è quello che succede all’ancora diciassettenne Elio di Timothée Chalamet, quando nell’estate del 1983 - passata nella residenza vicino al Lago di Garda, ereditata dai suoi genitori - sembra essere nel pieno di quella fase in cui la maturità incalza, desiderosa di occupare il posto dell’adolescenza con le buone o con le cattive. Transizione di per sé già ingarbugliata, resa ulteriormente più difficile dall’arrivo di Oliver, lo studente americano invitato da suo padre per sei settimane, che porta il viso e il corpo aitante di Armie Hammer: un ospite che non lo lascia affatto indifferente e con il quale dovrà condividere una parete della sua stanza.
Ci si perde, infatti, in queste dimore simili a dei castelli, composte da stanze sconfinate - alcune comunicanti, altre isolate – fatte apposta, sembra, per concedere - nel caso uno lo volesse - una privacy infinita. Potresti scomparirci per ore e ore nonostante in casa ci siano i tuoi genitori, governanti e aiutanti, impegnati ogni singolo minuto, e un via vai di ospiti dal ritmo regolare ed estemporaneo. Potresti trovare il silenzio che vai cercando o l’intimità che ti serve rifugiandoti in camera tua, in soffitta, in qualche piano superiore, o semplicemente uscendo a fare un giro in bici fino al lago o giù in paese. Insomma potresti, in sintesi, vivere una vita parallela, complicata da individuare e da tenere d’occhio, accumulando segreti e comportamenti che avresti tenuto probabilmente a freno in condizioni differenti.
Che poi è quello che succede all’ancora diciassettenne Elio di Timothée Chalamet, quando nell’estate del 1983 - passata nella residenza vicino al Lago di Garda, ereditata dai suoi genitori - sembra essere nel pieno di quella fase in cui la maturità incalza, desiderosa di occupare il posto dell’adolescenza con le buone o con le cattive. Transizione di per sé già ingarbugliata, resa ulteriormente più difficile dall’arrivo di Oliver, lo studente americano invitato da suo padre per sei settimane, che porta il viso e il corpo aitante di Armie Hammer: un ospite che non lo lascia affatto indifferente e con il quale dovrà condividere una parete della sua stanza.

Barriere che, comunque, Elio e Oliver non smettono di sentire intorno pesanti e indistruttibili, che provano a eludere e contemporaneamente a rispettare, simulando di essere ciò che non sono e fingendo di saper gestire (più Oliver che Elio) un amore a intermittenza che serve solo a far star male entrambi a furia di reprimere un dolore che li consuma e li strugge.
Ma loro lo sanno, lo sanno meglio di chiunque altro che ciò che hanno non è comune: e non perché è sbagliato, ma perché è raro. Lo sanno nei silenzi e nelle lacrime, in quel cercarsi e toccarsi, prima ancora che il padre di Elio si rivolga al figlio e si lasci andare a uno di quei discorsi brillanti dove ogni parola è al posto giusto e ogni frase misurata al millimetro, riuscendo a mettere a fuoco quello che, oggi, per molti, pare seguitare a essere un tabù da scacciare.
Un tabù che Guadagnino prova a sbrogliare con la forza del cinema e con la sua sensibilità, attraverso un film al quale forse avrebbe giovato avere un calore e un battito superiore per emozionare (al posto di qualche scena discutibile) a fondo e trasversalmente, ma a cui nell'insieme si può criticare tendenzialmente poco.
Trailer:
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