Di primo achittto, non ti fideresti mai di due tipi come Carlobianchi e Doriano (rispettivamente Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla, quest'ultimo anche front-man del gruppo alternative rock Il Teatro Degli Orrori). Due ultracinquantenni che dovrebbero crescere, secondo qualcuno, ma che a quel qualcuno rispondono fulminei: "Siamo troppo vecchi per crescere!".
E hanno ragione, forse davvero sono troppo vecchi per crescere, ormai hanno perso il treno. Ecco perché passano le loro giornate in macchina, saltando da un bar all'altro, alla ricerca dell'ultima bevuta. Quella che ultima non è mai, ovviamente, visto che la parola ultima, davanti a bevuta, a loro serve solo per mettere in moto un trucco psicologico che dovrebbe ingannare il fisico (o la mente) che, in questo modo, dicono, continua a rimandare il senso di saturazione e a tenere attivo il bisogno. Insomma, sembrano un po' il gatto e la volpe, questi due, specialmente quando in piena notte, a secco di alcol, si imbattono in Giulio, uno studente universitario che sta festeggiando la laurea di un'amica di cui è palesemente innamorato, ma che proprio non ce la fa a sciogliersi per corteggiarla, passare all'azione. Il suo gruppo vuole continuare a fare baldoria, mentre lui preferisce tornare a dormire, per affrontare al meglio l'esame che dovrà sostenere di lì a poche ore. Peccato che, ad impedirgli ciò, saranno proprio Carlobianchi e Doriano che, con l'inganno di riportarlo a casa, lo prendono sotto la loro ala e lo trascinano in un viaggio (alcolico) on-the-road lungo tutto il Veneto rurale, senza alcuna una meta da raggiungere, se non quella della massima goliardia e della follia.
Compresso nella sostanza, allora, “Le Città Di Pianura” è il classico archetipo di film in cui, il protagonista – che sbuca in sordina, ma che chiaramente è il Giulio di Filippo Scotti – forzato da eventi esterni, o comunque non esattamente per sua volontà, affronta un percorso che lo porta a raggiungere un cambiamento. L’elemento assurdo, in questo caso, è che il cambiamento – importantissimo – per lui arriverà per mano di due mentori che nessuno al mondo si prenderebbe la briga di etichettare come tali. Eppure, per Francesco Sossai – regista e co-sceneggiatore del film, qui alla sua opera seconda – Carlobianchi e Doriano rappresentano la malinconia di una provincia che non c’è più, il ricordo di un luogo chiamato casa che lentamente sta mutando (è già mutato), scomparendo sotto il peso della cementificazione e della crisi economica (del 2008). E questo loro modo di affrontare la vita, di andare in giro praticamente ubriachi sempre, è una sorta di medicina che serve a placare lo scoramento, ribellarsi a tutto ciò. A trattenere lo spirito dei tempi che furono, della giovinezza, di qualcosa che era talmente bello e piacevole che, adesso, manca enormemente, perché irraggiungibile. E la cosa più romantica che possono fare, dunque, è scuotere il timido Giulio e portarlo verso quello che, inizialmente a noi sembra un lato oscuro, ma che poi ci rendiamo conto essere, invece, il lato salvifico dell’esistenza (il segreto del mondo). Quello in cui ci permettiamo (il lusso?) di mollare un attimo gli oneri, di lasciarci andare, di commettere cazzate (bianche, innocenti) che però sono le uniche certezze che, fino a prova contraria, ci strapperanno un sorriso, colmandoci di soddisfazione, quando arriveremo vicino al traguardo.
La differenza, quindi, sta interamente nella forma, quella con cui Sossai costruisce il suo piccolo, grande (e bellissimo) film per raccontare un mondo - quello della provincia, appunto - che è assai diverso da quello urbano, a noi più conosciuto. Un mondo che influenza tantissimo la percezione, la filosofia (e qui ce n'è tantissima) e il punto di vista di chi ci vive, risultando spesso, addirittura, più ricco e vasto (e profondo) di quel che crediamo. Come impareranno Carlobianchi e Doriano, quando sarà Giulio a prendere, per un attimo, in mano la situazione, poco prima di correre contro il tempo per accompagnarlo a prendere quel treno che, a differenza loro, lui non può e non vuol permettersi di perdere.
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