Il Filo Nascosto - La Recensione

Il Filo Nascosto Paul Thomas Anderson
C'è una corrente di pensiero - forse più unica che rara - capace di mettere d’accordo sia critica cinematografica, sia addetti ai lavori. Una corrente che - per ovvie ragioni e da anni - tende a soffiare più in America che in Italia, ma non per questo da prendere sottogamba, o da bollare come poco affidabile o amplificata. Tale corrente riguarda Paul Thomas Anderson e il suo essere considerato, imparzialmente, uno degli autori più importanti (e grandi) del Cinema contemporaneo; uno di quelli che – per questo – quando torna a farsi vivo riesce a scatenare sempre, involontariamente, curiosità e attenzioni, accendendo un fermento impercettibile, ma di ampissima portata.

Questo perché Anderson - e va detto - è anche un autore enormemente articolato; usando un brutto termine (un termine che, a pelle, non gli si addice per niente) potremmo definirlo quasi borghese: di quelli che non faranno mai un passo per avvicinarsi al livello dello spettatore, fermamente convinti che tocchi a quest’ultimo – casomai - fare uno sforzo (culturale) e provare ad elevarsi. Principio che da una parte potrebbe farlo passare - se visto con occhio superficiale e impreparato - come autore presuntuoso e arrogante, ma dall'altra, invece, secondo chi scrive, è fondamentale proteggere e conservare quando si hanno ambizione e talento per scrivere e dirigere una pellicola immensa e impressionante come “Il Filo Nascosto”, che - ci azzardiamo a dire - dovrebbe fugare definitivamente ogni dubbio residuo degli scettici in proposito alla sua grandezza. Quella di Reynolds Woodcock, infatti, è una storia che può sembrare fine a se stessa solo in apparenza; una storia che - così com’è stata concepita - possono permettersi di pensarla in pochi e di cucirla ancora meno: perché sebbene sia ambientata nella Londra degli anni Cinquanta, gli argomenti e le riflessioni che pone sul tavolo sono assolutamente contemporanei, trapiantati indietro nel tempo per questioni di fascinazione, eleganza e intelligenza, ma senza ombra di dubbio con lo spirito fissato nel nostro presente (e futuro?).

Il Filo Nascosto Paul Thomas AndersonEccolo il filo nascosto a cui fa riferimento il titolo, allora, quello che si cela dietro alla parabola di Woodcock: lo stilista considerato praticamente un Dio - e interpretato (da Dio) da Daniel Day-Lewis – che un giorno perde la testa per una donna più giovane di lui, la quale ricambia, salvo ritrovarsi poi incastrata a fargli da musa ispiratrice, ma senza ruolo effettivo (amante / compagna / donna) da ricoprire all'interno dello sfarzoso palazzo che da ex-cameriera la accoglie e la coccola. E’ proprio lei, del resto (una straordinaria Vicky Krieps), ad aprire il racconto; a descrivere l’uomo a cui ha donato ogni pezzo di se come un bambino esigente, un bambino - vedremo in seguito – capriccioso, sposato - di fatto - col proprio lavoro, incapace di abbandonarsi al piacere e di prendere le distanze da un talento che lo obbliga a ergere muri, a isolarsi e a farsi freddo col mondo. Una routine che guai a spezzarla, guai a modificarla o, magari, a toccarla; il segreto del successo: autorizzata a essere interrotta esclusivamente dal malessere, ovvero da quel crollo fisico che se lavori troppo viene a dirtelo bussando alla porta, di tanto in tanto.
Perché, si sa, sono le pause forzate a rimetterci in contatto col piacere, a radere al suolo i muri eretti dagli impegni, a farci vulnerabili e quindi umani. Lo è per Woodcock – che in quei momenti torna uomo innamorato e amante passionale – come lo è per noi. Specialmente per noi. Che nell’epoca dei ritmi no-stop ci viviamo immersi fin sopra i capelli e che troppo spesso rimandiamo l’appuntamento con noi stessi per privilegiare il dovere: quello che - ci sussurra Anderson all’orecchio - è arrivato a prendersi talmente tanto spazio da confonderci addirittura le idee su chi comanda per davvero la nostra vita.

Del resto non capita a tutti la fortuna di avere al fianco una compagna come Alma, una donna che, nonostante i sospetti e i misteri, ama il suo uomo da volersene prendere cura in un modo tutto suo, un modo che tuttavia, una volta testato e capito, anche lui sceglie di non disdegnare, anzi: come testimonia uno dei finali più romantici, potenti e spiazzanti visti al cinema, nel quale Anderson sembra quasi voler citare "The Beguiled", fregando tutti con una finta da fuoriclasse sulla quale vorresti solo alzarti in piedi e far partire un lungo applauso spontaneo e meritatissimo.
Meritatissimo per come è diretta e recitata la scena in questione, meritatissimo per come va a mettere il punto definitivo a un film che di difetti ne è sostanzialmente privo e che, oltre a darci una lezione di cinema pura e preziosa, sa posizionarci di fronte a uno specchio, mettendoci addosso un vestito che ci calza a pennello.

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