Dark Night - La Recensione

Dark Night Sutton
Era il 2012 quando alla prima di “The Dark Knight Rises”, ad Aurora, in Colorado, un ragazzo armato fece irruzione in una sala cinematografica sparando agli spettatori: causando un bilancio tragico di 12 morti e 70 feriti. Tuttavia, a distanza di sei anni da quella drammatica data, non sembra che – e sono notizie di questi giorni – in America la situazione in merito alle armi e alla facilità di procurarsele – specialmente per chi dovrebbe starne alla larga o per chi è mentalmente instabile – sia cambiata in maniera considerevole, e a confermarlo sono gli episodi sempre meno sporadici che accadono nelle scuole, nelle chiese e in altri luoghi sociali, di ritrovo.

Quello di Tim Sutton, allora, sebbene prenda spunto nel nome dall'ultimo capitolo del Batman di Nolan, in realtà, pur facendo libero riferimento a quell'episodio, è praticamente un prodotto a metà tra fiction e mockumentary volto a imbastire una riflessione profonda e quasi viscerale sul rapporto d’attrazione che c’è tra gli americani e le armi. Lo fa seguendo la vita di sei persone – assassino compreso – nelle ore precedenti alla suddetta strage, raccontandocele in modo impalpabile, schivo, come fosse un estraneo che dall'esterno studia curioso comportamenti che non riesce a capire, o che in gran parte lo turbano (come accade per l’unico ragazzo davvero intervistato e nel caso del ragazzo che poi aprirà il fuoco). La sensazione è dunque quella di un ticchettio silenzioso e indolente che inevitabilmente scorre verso un finale che tutti conosciamo e che Sutton non ci tiene neppure a rimettere in scena: tant'è che si accontenta di evocarlo, costruirlo, ma staccando le immagini su di esso proprio nell'attimo in cui le nostre orecchie stavano già ricercando il suono dei proiettili. Un suono che non arriva, quindi, ma che la consapevolezza riesce piuttosto chiaramente a replicare nel nostro inconscio; sordo e potente come se fossimo noi per primi all'interno di quella sala, una sala piena di persone in cerca d’aiuto, forse, ancora prima di andare incontro al loro destino.

Dark Night VeneziaCerto, è oggettivo ammettere che “Dark Night” nel complesso sia un’opera molto particolare, una raffigurazione del lato più oscuro e violento dell’America eseguita in una forma stilistica che va in netta controtendenza con ciò che ci si aspetterebbe da una storia come questa. Sutton infatti evita come la peste la strumentalizzazione dei fatti in termini di spettacolarizzazione, punta la telecamera al di fuori del sangue e della morte, lasciandosi trasportare da una regia, tutta personale e altamente estetica, che sulle prime spiazza, salvo guadagnare, a poco a poco, l'ansia e il timore non appena si avvicina sempre di più verso l'epicentro dichiarato nonché punto definitivo. Un epicentro che, in un film che punta tutto sull'andare ad evidenziare i sintomi che lo hanno provocato, diventa quasi naturale che, alla fine, non venga replicato, ricostruito fino in fondo, come se le righe testuali che, di fatto, vanno a sostituirlo da sole bastassero a rendere l'idea e a restituirne il dolore.

Compreso dei pregi e pure dei difetti - che di certo non gli mancano (soprattutto nel ritmo) - "Dark Night" riesce, perciò, non solo a rendere percettibile quel senso di malessere generale, palese, al quale gli Stati Uniti paiono essere ormai assuefatti, tanto da non percepirlo quasi più come un grave problema, ma anche a mettere in evidenza le doti di un regista interessante, da tenere d'occhio, nonostante l'arroganza che lo porta, ogni tanto, ad abusare della sua potenziale bravura.

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