Charley Thompson - La Recensione

Il punto di forza, la costante, di un regista come Andrew Haigh, sta tutta nella sua abilità a saper raccontare le storie. Da "Weekend" a questo "Charley Thompson", mettendoci in mezzo anche "45 Anni", è evidente il segno di una sensibilità e di una simmetria scenica per nulla scontata come nemmeno propria di chiunque si approcci al mestiere.
Ha un grande talento, Haigh, uno di quelli che può farti vincere con convinzione una sfida, ma allo stesso tempo salvarti in calcio d'angolo quando quella sfida è più ostica del previsto, complessa, o forse, addirittura, sopra i tuoi limiti.

Perché - diciamoci la verità - se non fosse stato per questo suo innato senso di narrazione, probabilmente, "Charley Thompson" non ce l’avrebbe fatta a stare sulle sue gambe tanto quanto gli riesce. L’adattamento del libro di Willy Vlautin – da noi intitolato "La Ballata Di Charley Thompson" – avrebbe potuto inciampare molto prima, cadere male o perfino rischiare di non conoscere mai il significato del verbo galoppare se, dietro di lui, ci fosse stato qualcuno incapace di percepirne distintamente lo spirito, catturarlo e stare attento a non disperderlo nel delicato passaggio dalla carta alla celluloide. Siamo nella sfera del coming-of-age, infatti, alle prese con la storia infausta di un adolescente abbandonato dalla madre che, anziché scegliere di crescere con una zia idonea a sopperire a quel ruolo, decise, a suo tempo, di restare accanto a un padre affettuoso ma irresponsabile, nomade e precario. Un padre che inevitabilmente finirà col cacciarsi in guai molto seri, costringendo il figlio a fuggire dagli assistenti sociali in compagnia di un cavallo (il Lean On Pete, del titolo originale) rubato a un allenatore che gli aveva offerto di lavorare per lui e che per soldi, e condizioni fisiche pietose, stava per cedere l’animale alla forca dei messicani.
Gli ingredienti esemplari di un dramma per eccellenza, insomma, che a ogni curva o cambio marcia poteva rischiare di scadere nel deprimente o di perdere contatto con quella vitalità e quella scintilla tipica della giovinezza che, invece – merito altresì di un Charlie Plummer bravissimo – Haigh sa come fare per mantenere costantemente presente, vivida e determinante.

Charley Thompson HaighNon è un caso allora se la sua pellicola si apra e si chiuda allo stesso modo: ovvero con Charley intento a correre per la strada, allenandosi a fare jogging (fotogramma ripreso anche per il manifesto): un'immagine che anticipa il carattere e l’animo di chi, nella sua esistenza, ha sempre dovuto (voluto) sudarsela, spendersi e faticare per sopravvivere e che difficilmente riuscirà – almeno nel breve periodo – a uscire, o a liberarsi, da tale condanna. Bisogna essere temprati corpo e mente, del resto, per affrontare un calvario come quello tracciato in "Charley Thompson" con la medesima determinazione e sacrificio ostentati dal suo protagonista; abbandonare l’accoglienza di un padre putativo imperfetto, ma schietto come Steve Buscemi e darsi alla scoperta del west, vagabondando, insieme a un cavallo che guai a cavalcare perché tuo pari.
Tempra che persino Haigh prova a recuperare in sé stesso, accorgendosi forse troppo tardi, però, che il genere western non è esattamente ciò che gli appartiene, dimostrandosi assai più lucido e acuto nello spaccato della sua pellicola in cui il mondo delle corse e delle scommesse ippiche provano a tendere una mano alle sorti del suo protagonista.

Un rischio che purtroppo finisce per avere un costo nell'economia visiva del suo lavoro, il quale lentamente si sfilaccia progressivo nell'ultima mezz'ora, perdendo le redini di quello che era stato per buona parte un cammino senz'altro triste, ma indiscutibilmente sincero e coinvolgente.

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